Slow Fashion

Come avere successo nello Slow Fashion: le lezioni di 3 brand che hanno conquistato il mercato

I vestiti che indossiamo sono una parte fondamentale della nostra vita – e anche dell’economia mondiale.

Ad oggi l’industria della moda vale 1.3 trilioni di dollari e impiega oltre 300 milioni di lavoratori a livello globale.

È un mercato che corre alla velocità della luce: negli ultimi 15 anni, la produzione di vestiti è raddoppiata. Il tempo d’uso medio dei capi, invece, è sceso del 40%.

Due sviluppi che ci ha portato il “fast fashion”, la moda veloce che vuole il profitto ad ogni costo (anche ambientale e sociale).

Eppure, anche in questo caso, per ogni trend ne nasce uno uguale e contrario.

Parliamo dello “slow fashion”, la moda della seconda mano, di nuove fibre, di sviluppo circolare e di meno vestiti che durano di più. È una moda che ricorda tanto quella del passato, ma che ha estremo bisogno di innovazione, nuove idee e nuovi modelli di business.

Soprattutto, è un mercato che può sbloccare 560 miliardi di dollari di nuove opportunità.

Ma cosa lo caratterizza? E come si fa ad avere successo in questo mercato?

Sono solo alcune delle domande a cui risponderemo in questo Insight, in cui passeremo da campagne pubblicitarie che hanno fatto la storia dell’advertising, a camioncini che girano l’America a riparare pantaloni, fino a fibre riciclate fotoluminescenti.

Allacciate le cinture, il nostro viaggio comincia a oriente.

La rotta fin qui

È il 24 aprile 2013.

A Dacca, capitale del Bangladesh, succede qualcosa di inaspettato, che cambierà per sempre il mondo della moda per come lo conosciamo.

Il Rana Plaza, un edificio di otto piani con oltre 3.000 persone al suo interno, crolla rovinosamente a terra.

1.134 lavoratori tessili muoiono schiacciati dalle macerie.

Le operazioni di soccorso vanno avanti per diverse settimane e tra calcinacci e sopravvissuti, iniziano a venire alla luce anche altri segreti nascosti da tempo dietro edifici come il Rana Plaza.

I lavoratori (per la maggior parte ragazzine) producevano capi d’abbigliamento per grandi marchi occidentali.

Tutti loro sapevano che il Rana Plaza non era sicuro, ma continuavano ad andarci per paura di perdere lo stipendio che li manteneva.

Il crollo del Rana Plaza segna una data storica, in cui, per la prima volta, gli orrori del “fast fashion” e della moda iper-produttiva sono arrivati sotto gli occhi di tutti.

Eppure, non è sempre andata così.

Durante tutto il corso della storia dell’uomo, dagli antichi egizi alle corti del ‘700, i vestiti sono sempre stati un’importante espressione della propria identità culturale e personale.

Per millenni, la moda è stata guidata da due parole: lentezza e durabilità.

Creare un vestito era il risultato di un lungo lavoro e tanto impegno, a partire dalla lavorazione della materia prima (di solito lana, pelle o cotone) alla realizzazione del capo stesso, condotta a mano.

La cosa più importante? Che il vestito durasse il più possibile.

Nessuno voleva aspettare troppo per averne un altro e spesso non poteva nemmeno permetterselo.

Qualcosa inizia a cambiare con la rivoluzione industriale.

Nascono nuovi macchinari tessili, la macchina da cucire, fabbriche e modi di produrre. Per la prima volta nella storia, i vestiti iniziano ad essere prodotti in massa in varie misure al posto di essere commissionati in una bottega.

Ma comprare nuovi vestiti ogni sei mesi era un pregio che ancora pochi potevano permettersi.

E allora, quand’è che il mondo della moda inizia definitivamente a correre all’impazzata?

Semplice, col boom economico degli anni ‘60.

I brand cercano nuovi soluzioni per produrre tanto, e a basso costo.

Nascono i primi grandi stabilimenti tessili nei Paesi del terzo mondo (come il Rana Plaza) e si fanno strada anche nuove fibre come il nylon e il poliestere, resistenti e poco costose, ma ottenute da derivati del petrolio.

Zara, H&M, Primark diventano i primi veri negozi di “fast fashion” a conquistare il mercato globale.

zara store

E infatti, il termine “fast fashion” compare per la prima volta sul New York Times all’inizio del 1990, per spiegare la macchina di produzione di Zara: solo 15 giorni per passare dall’idea di un designer alla vendita in negozio.

Sempre a cavallo dei due secoli, indossare vestiti a basso prezzo inizia a diventare cool.

Un cambio culturale che nei primi anni del 2010 viene consacrato anche dai più influenti personaggi politici e dello spettacolo.

Se Kate Middleton e Michelle Obama vengono fotografate indossando Zara e H&M, allora li possono indossare tutti.

Il passaggio è compiuto: comprare vestiti a basso prezzo non è più qualcosa di cui vergognarsi.

Ma torniamo per un attimo al crollo del Rana Plaza.

Il giorno dopo il crollo, nasce un nuovo movimento nel mondo della moda: Fashion Revolution, ideato dalle designer di moda Orsola de Castro e Carry Somer.

Si definiscono un movimento formato da attivisti che credono in una diversa industria della moda, capace di rispettare i diritti umani e l'ambiente in tutte le fasi del ciclo produttivo.

È uno dei primi tasselli di quello che verrà poi definito “slow fashion”, sinonimo di tempi di produzione più lunghi, migliori condizioni dei lavoratori, riciclo dei tessuti, materiali sostenibili e riparazioni.

Insomma, toppe e seconda mano.

Una sorta di ritorno al passato, come scacco a un modello di business che non funziona in termini sia ambientali che sociali.

L’attenzione dei consumatori a brand e aziende che si muovono in questo senso negli ultimi anni è cresciuta sempre di più.

Secondo McKinsey, il 67% dei consumatori ora presta attenzione all’impatto ambientale dei propri vestiti, e la Generazione Z e i Millennials hanno più probabilità di comprare vestiti da brand più piccoli e meno conosciuti rispetto alle grandi catene.

Non solo: dal report “State of Fashion 2022” di McKinsey, è emerso che i dirigenti delle grandi aziende di moda considerano la sostenibilità come la seconda più grande opportunità del settore per il prossimo anno.

Uno dei trend più grandi della moda sarà proprio quello di creare modelli di produzione di tessuti circolari, in cui le fibre usate per vestiti buttati vengono riutilizzate per creare nuovi capi.

Ma non finisce qui.

Sulla cresta dell’onda dello slow fashion stanno nascendo:

  • nuovi modelli di business che incentivano la durata dei capi e che fanno leva anche su altre entrate economiche (oltre alla vendita di capi)
  • aziende che danno nuova vita ai capi usati (attraverso la rivendita di capi di seconda mano, capi custom rivisitati o il riciclo di fibre)
  • sviluppo di nuove fibre a basso o nullo impatto ambientale

Le nuove opportunità sono sempre di più.

Ma come ci si muove in questo mercato? E cosa ne possiamo imparare noi come marketers?

È quello che scopriremo nelle prossime righe, da alcuni dei brand che stanno rivoluzionando il settore.

La bussola del mercato

Come abbiamo detto nel paragrafo precedente, la nascita dell’industria e del movimento slow fashion a livello globale ha radici recentissime: circa una decina di anni.

Eppure, c’è chi opera in questo mercato da molto più tempo di quanto possiamo immaginare.

Se c’è un’azienda che prima di tutte è stata pioniera del trend, prima ancora che il fenomeno diventasse vasto e globalizzato, è Patagonia.

Nelle prossime righe scopriremo quali sono i fattori che le hanno garantito il successo in questo mercato e che hanno stabilito la strada da seguire per chi è arrivato dopo.

Scopriremo anche alcuni progetti più piccoli e nati di recente in Italia. Vedremo che, alla fine, le somiglianze tra una multinazionale e un piccolo brand italiano sono davvero tante.

Patagonia

patagonia

A soli 14 anni, Yvon Chouinard, il fondatore di Patagonia, milita nel Southern California Falconry Club, la più grande organizzazione di Falconeria degli Stati Uniti.

Don Prentice, uno dei capi adulti, insegna ai ragazzi a calarsi in doppia giù per le pareti rocciose dove fanno i nidi i falchi. Questa semplice lezione suscita in Yvon un amore permanente per l'arrampicata su roccia (e per la natura).

La passione cresce sempre di più, così tanto che nel 1957 Yvon compra una fucina a carbone usata, un’incudine, alcune pinze e martelli e diventa fabbro da autodidatta – un po’ per necessità economiche, un po’ per crearsi da solo i chiodi da scalata.

Nel 1965 la sua attività diventa una società, e non passa troppo tempo prima che la allora “Chouinard Equipment” inizi a vendere anche vestiti d’arrampicata: è la nascita di quella che oggi tutti conosciamo come Patagonia.

L’azienda ha da subito l’imprinting del suo fondatore: amore sconfinato della natura e il desiderio di proteggerla.

Già dai primi anni ‘70, infatti, sarà l’azienda portavoce di tutti gli ideali di una moda funzionale, resistente e duratura (un approccio impensabile per qualsiasi altro brand di quella scala).

E allora, è a loro in primis che chi vuole avere successo in questo campo deve ispirarsi.

Pensiamo solo che di recente Patagonia ha raggiunto il primo posto nella lista di brand con la miglior reputazione negli Stati Uniti e un fatturato di 209 milioni di dollari all’anno, senza essere quotata in borsa (anche questa una scelta fatta per non compromettere i valori dell’azienda).

Di sicuro, nella storia di successo di Patagonia, ci sono state delle scelte di marketing astute, in perfetta linea con le idee di fondo del brand.

Avete mai sentito parlare di un’azienda che chiede ai suoi clienti di non comprare i suoi prodotti?

Ebbene, Patagonia l’ha fatto, in una delle – forse – campagne pubblicitarie più famose della storia.

“Don’t buy this jacket”: le tre chiavi per avere successo nel mercato slow fashion

dont buy this jacket

È il Black Friday del 2011. Sul New York Times appare una pubblicità che coglie i lettori di sorpresa.

Il titolo? “Don’t buy this jacket”, “Non comprare questa giacca”.

Il resto del copy spiega ai clienti perché non avrebbero dovuto acquistare la giacca, analizzando i costi ambientali richiesti nelle varie fasi di produzione:

  • 135 litri d’acqua, abbastanza da dissetare per un giorno 45 persone
  • 20 chili di anidride carbonica per il trasporto

L’obiettivo principale della comunicazione? Convincere le persone a comprare solo quello di cui hanno davvero bisogno, solo quando ne hanno bisogno. L’idea era di portare il consumo consapevole in prima linea.

I risultati sono stati sorprendenti. Le vendite sono aumentate del 30% dopo la campagna.

Da una sola campagna impariamo tre “ricette per il successo” nello slow fashion che Patagonia ha portato avanti da sempre.

La prima è che prendere dei rischi e fare qualcosa di esattamente opposto al resto del mercato ripaga.

Nessuno, ai tempi, si sarebbe sognato di fare una campagna simile. Va contro ogni logica razionale della vendita. Eppure ha funzionato di brutto.

Ma perché?

Era così fuori dall’ordinario che chiunque la vedeva voleva mostrarla agli amici, ai parenti, ai colleghi. Ne hanno parlato persino i giornali (gratis).

Ha fatto rumore, e aveva quel sapore di “ribellione allo status quo” in cui un consumatore attento si può rispecchiare.

La seconda, è che questo mercato richiede trasparenza.

Il consumatore consapevole vuole sapere cosa si nasconde dietro ogni capo che compra:

  • Quanta acqua è stata consumata?
  • Quanta CO2 è stata emessa per produrla e trasportarla?
  • Chi l’ha cucita?
  • E perché ha meno impatto sull'ambiente e sulle persone rispetto ad altri brand?

Più risposte daremo, più creeremo fiducia nei nostri prodotti e nella nostra azienda.

Questo ci collega al prossimo punto.

L’abbiamo letto prima, Patagonia non ha rivali in termini di reputazione e fedeltà.

Questo perché, nel tempo, ha instaurato un profondo rapporto di rispetto e fiducia reciproci con i suoi clienti.

Semplicemente, comunica sempre quello che fa, che sia quanta acqua risparmia rispetto ad altri per produrre una maglietta, o come ha creato un nuovo tessuto più sostenibile.

L’ha fatto con le pubblicità, l’ha fatto con i prodotti, e l’ha fatto col suo attivismo politico e sociale.

Ma c’è di più.

Il lancio del Worn Wear Wagon e il marketing educazionale

worn wear wagon

I prodotti Patagonia sono famosi per la propria durata. Ma niente dura per sempre.

Prima o poi, anche questi si strapperanno o scuciranno, specialmente se usati per scalare o surfare.

A questo punto un consumatore può chiedersi: devo buttarli per comprarne di nuovi? Secondo Patagonia, assolutamente no.

Nel 2015 lancia la campagna “Worn Wear Wagon”, uno camioncino che viaggia per tutti gli Stati Uniti a riparare – gratis – i vestiti dei clienti e a educarli su come aggiustare i propri vestiti da soli.

La campagna è passata anche per il content marketing: il sito Patagonia si è riempito di una serie di guide su come riparare e cucire i propri capi rotti, in modo da consentire ai clienti di farlo da soli.

In un settore in cui un capo va di moda sì e no per un anno, ancora una volta Patagonia si schiera (da sola) dalla parte opposta.

Come parte del Worn Wear Program, tutt’ora attivo, i clienti ottengono crediti per il loro prossimo acquisto di un capo nuovo o usato.

Ovviamente la campagna parla ai consumatori più attenti e consapevoli.

Ma scaviamo ancora più in profondità.

Patagonia fa un passo in più rispetto ad altri rivenditori di abbigliamento: educa.

Insegna alle persone come riparare i propri vestiti, spiega perché è importante allungare la vita di un capo, incentiva la pratica con crediti nei negozi.

E così entra nel cuore di chi acquista e ci rimane per sempre. Questo tipo di comunicazione è quello che in CopyMastery (il nostro corso di copywriting strategico) chiamiamo copywriting educazionale.

Nel corso ci sono diverse lezioni in cui spieghiamo come usarlo per conquistare la fiducia dei propri clienti e aumentare le proprie vendite. Puoi darci un’occhiata qui.

Chi vuole avere successo in questo settore infatti non può evitare di informare i clienti.

Ma perché?

Il pubblico attento e consapevole all’ambiente può comunque non conoscere tutto quello che si nasconde dietro l’industria della moda. È per questo che deve essere guidato nelle sue scelte.

Questa strategia di copywriting educazionale, se fatta bene, ha un effetto straordinario e di lunga durata: ci posiziona come fonte esperta del settore.

I nostri clienti torneranno da noi non solo per i nostri prodotti, ma anche per conoscere le nostre opinioni, scoperte e innovazioni.

Ecco che abbiamo costruito una relazione che va aldilà di un semplice scambio commerciale. Ed ecco perché educare il mercato, a lungo termine, batterà sempre una strategia di vendita aggressiva.

Gente comune al posto degli Influencer: come Patagonia vince sui Social

Fai un giro sul canale YouTube di Patagonia o sul loro sito. Incapperai nei “Patagonia Films”, dei corti girati per portare alla luce le storie e le difficoltà di persone in giro per il mondo che lottano per proteggere l’ambiente.

Queste storie sono uno strumento di content marketing potentissimo. Ispirano la persone, le fanno emozionare, le fanno pensare. Battono continuamente ferro sui valori di Patagonia stessa, che sono esattamente gli stessi di chi guarda.

Patagonia è stata anche una delle prime aziende a usare le foto inviate dai suoi clienti nei propri cataloghi. Niente modelli, niente fotografi professionisti. Solo scene di vita vera, autentica e selvaggia:

patagonia flying baby

Questo è uno dei tanti esempi con cui Patagonia ha creato un senso di community forte, pur essendo una multinazionale.

Patagonia è stata costruita attorno a una sola filosofia: fare i migliori prodotti, senza danneggiare l’ambiente e usando i propri profitti per implementare soluzioni alla crisi climatica.

I suoi canali social diffondono proprio questi messaggi, attraverso ogni contenuto.

Il take away più importante? Vendere le proprie idee batte vendere i propri prodotti. Anche se siamo un piccolo brand italiano e senza i mezzi di un colosso commerciale.

Chi ha detto che devi vendere vestiti?

Abbiamo appena sviscerato i fattori di successo di una delle più famose aziende del mondo, paladina dei valori dello slow fashion.

Ovviamente Patagonia guadagna dalla vendita di vestiti: è la sua fonte d’incassi principale.

Ma chi lo dice che le revenue di un’azienda nel settore slow fashion debbano venire dalla vendita di capi?

Ecco qui un’altra chiave di volta del settore: la creatività e il pensiero laterale.

Lo slow fashion ha un unico araldo fondamentale: smantellare i modelli di business “fast”, che usurpano le risorse dell’ambiente e mettono a rischio le vite dei propri lavoratori.

Il che significa anche ideare nuovi modelli di business che vadano oltre la produzione e vendita di vestiti.

Ne abbiamo visto un accenno con Patagonia e la sua campagna Worn Wear.

Ma ci sono tante altre strade da percorrere.

Matteo Ward e i tre servizi di WRÅD

wrad

Oggi Matteo Ward è un imprenditore e divulgatore (su Instagram conta 25.000 followers) che opera nel mondo slow fashion.

Eppure la sua storia parte in modo ben diverso.

Dopo una laurea in Bocconi, lavora per 6 anni come Senior Manager di Abercrombie&Fitch e inizia ad appassionarsi sempre di più alla moda responsabile e (soprattutto) alla ricerca di nuovi modelli di business per la fashion industry.

Si licenzia, frequenta un corso di Business Sustainibility Management tenuto dall’Università di Cambridge e poi decide di aprire WRÅD, una startup e design company dedicata all’innovazione sostenibile e sociale nella moda.

Oltre a questo, è membro di Fashion Revolution Italia, il movimento di cui abbiamo parlato nel capitolo “La rotta fin qui”.

Poi ha iniziato anche a divulgare su Instagram, istruendo i suoi followers su diversi aspetti del processo di produzione di un capo e segnalando diversi casi di greenwashing di grandi aziende.

Questo l’ha portato a diventare speaker per diversi eventi e organizzazioni, tra cui le Nazioni Unite, TEDx e WIRED Digital Day.

Ma torniamo a WRÅD.

Se date un’occhiata al loro sito, vedrete che sì, c’è anche uno shop con alcuni capi selezionati.

E in effetti, agli inizi, WRÅD era nata come retailer di moda responsabile. Nel tempo, i fondatori si sono accorti che fare “moda sostenibile” non significa solo produrre prodotti. È un processo molto più ampio e lungo, che abbraccia fasi e campi diversi fra loro.

Cambia tutto: WRÅD decide di dare vita a un nuovo modello di business che si sostiene su tre colonne principali: la formazione, l’innovazione tecnologica e servizi di consulenza aziendale:

  • La formazione è rivolta alle aziende che vogliono passare a un modello di produzione e distribuzione più responsabile. Ecco il focus sulla circolarità, la comunicazione, il design e principi chiave di sostenibilità.
  • L’innovazione passa per progetti di Ricerca e Sviluppo. Qualche esempio? WRÅD ha creato una tecnologia che permette di riciclare la grafite come colorante per i vestiti e un sistema di Intelligenza Artificiale che unisce la tracciabilità sociale e ambientale e la gamification.
  • La consulenza va dalla creazione di strategie di comunicazione ad hoc all’innovazione del modello di business e della product strategy per aziende partner.

Uno dei loro ultimi progetti più fighi è Light Up, in cui hanno curato la realizzazione e il design di capi di lana e cashmere riciclati in grado di assorbire la luce e di rilasciarla al buio, grazie a pigmenti fotoluminescenti (anche questi riciclati).

La cosa più importante che possiamo imparare da WRÅD? L’innovazione e lo slow fashion passano per più strade oltre alla vendita dei vestiti.

Nicolò Puccini e la seconda mano tailor made

nicolò puccini

Tra vestiti e consulenze di design, non abbiamo ancora parlato di un altro elemento che può fare la differenza in questo mercato: la personalizzazione.

Nello specifico, la personalizzazione di capi di seconda mano.

Il tailor made è un’arma di marketing potentissima. Tocca i nostri istinti umani più primordiali: la volontà di creare una nostra identità forte, unica e indistinguibile dagli altri.

Non è un caso che grandi brand permettano di personalizzare i capi sui propri siti (come Converse con le scarpe). Secondo McKinsey, il 71% dei consumatori si aspetta che le aziende offrano interazioni personalizzate, mentre il 76% è frustrato se questo non avviene.

Sempre nello stesso report, scopriamo che la personalizzazione è particolarmente efficace nell’attirare acquisti ricorrenti e fedeltà sul lungo periodo.

È anche il motivo per cui compriamo il merchandising dei nostri cantanti preferiti o magliette della nostra serie tv preferita. Indossarla è un modo per dire: “Ehi, questo sono io, e questo è quello che mi piace”.

La personalizzazione è qualcosa di riservato alle grandi aziende? Assolutamente no, quando diventa sartorialità.

Ne è un esempio Nicolò Puccini, Fashion Stylist che ha iniziato a comprare vestiti di seconda mano unici (che rimanevano invenduti o rischiavano di essere inceneriti) per poi modificarli e venderli come capi unici.

La personalizzazione va dalla cucitura di nuove forme tagliate da pezzi di stoffa di recupero al “bleaching” (scolorimento) della stoffa.

Si può anche inviare un proprio vecchio capo a Nicolò per dargli nuova vita e personalizzarlo, magari con un tocco inaspettato. È il cliente che commissiona il lavoro, e assieme a Nicolò decide quali modifiche fare.

È un ritorno alla bottega di cui parlavamo all’inizio di questo Insight, al sarto a cui si commissionava l’abito da indossare.

Oltretutto, dato che il cliente è coinvolto nel processo creativo di customizzazione, si scatena anche l’effetto Ikea: l’effetto per cui, quando siamo partecipi nella creazione di qualcosa, ne aumenta il valore affettivo ed economico percepito.

Un’altra strategia applicata dal Personal Brand di Nicolò è quella di creare delle collezioni uniche con pochissimi capi, rivisitati secondo un tema comune.

Un esempio ne è “l’art drop”, una collezione in cui qualche giacca e paia di jeans di seconda mano sono stati recuperati e decorati con altre stoffe, in cui si vedono alcuni dei più famosi quadri della storia italiana.

 

art drop

Qui entra in gioco un altro meccanismo di marketing estremamente efficace.

Vi viene in mente qualcosa?

È lo stesso principio che utilizza Supreme, il famoso brand di streetwear che vende solo attraverso lanci con pochissimi pezzi. Le parole chiave sono due: esclusività e scarsità.

Esclusività, perché anche in questo caso, so che il capo che andrò a indossare mi renderà unico, o comunque apparterrò a un élite di poche persone in tutto il mondo.

La scarsità, una delle armi della persuasione descritte da Robert Cialdini, agisce in altro modo.

So che i pezzi sono pochi, io li voglio avere, ma so che dovrò essere più veloce di altri per ottenerli: per questo li compro. Quando qualcosa è scarso, lo vogliamo più del solito.

Non finisce qui. Dato che i capi in questo caso sono di seconda mano, non possono essere riforniti dopo essere andati sold out: se te ne perdi uno, non lo avrai mai più.

Le collezioni uniche e la sartorialità garantiscono al Personal Brand di Nicolò due asset di guadagno innovativi e incredibilmente potenti.

Oltre a questo, c’è una forte componente di interazione con la Community. Nicolò su Instagram chiede ai followers come vogliono che venga creato il prossimo capo, coinvolgendoli nella fase di creazione e sviluppo.

Mostra spesso i dietro le quinte del suo lavoro e del suo studio, dall’acquisto degli abiti di recupero alle prime cuciture.

Cura anche una newsletter, in cui vengono svelate in anticipo le informazioni sulle collezioni e che dà accesso primario ad alcuni capi unici in vendita.

Le coordinate da seguire

È inutile girarci attorno: i vestiti ci servono e ci serviranno sempre.

Anche il mercato della moda, però, come tanti altri settori, ha dovuto fare i conti con la crisi climatica e le richieste dei consumatori: sostenibilità ormai è la parola chiave.

Ed ecco che tutto inizia a trasformarsi. Per fissare bene i trend dello slow fashion, riavvolgiamo per un attimo il nastro:

  • La storia dello slow fashion è ai suoi inizi: è vero, alcune aziende pioniere come Patagonia hanno una storia ben più lunga. Eppure il crollo del Rana Plaza, il punto di svolta del settore, risale al 2013. Questo significa che il mercato è ancora fresco e pieno di opportunità.
  • I consumatori del futuro, la Gen Z e i Millennials, sono più informati e attenti rispetto a quello che comprano, e preferiscono fare scelte più consapevoli e rispettose dell’ambiente.
  • Nei prossimi anni chi non si adeguerà agli standard di sostenibilità verrà penalizzato, sempre di più. Già a marzo di quest’anno la Commissione Europea ha pubblicato la sua Strategia per la Sostenibilità e Circolarità dei Tessuti. Niente greenwashing, niente inceneritori, numero di collezioni annue ridotte e obbligo di sviluppo di servizi come riparazione e rivendita.

Insomma, lo slow fashion non è una “moda passeggera”: è un settore destinato a crescere nel tempo, dove l’innovazione farà da padrona.

Con un cambio di attenzione sia legislativa che da parte dei consumatori, ci sarà sempre più bisogno di immaginazione e di alternative alla moda così come l’abbiamo conosciuta finora.

Abbiamo visto che in questa transizione c’è spazio sia per le multinazionali che per i brand più piccoli (e persino per i personal brand):

  • Patagonia conduce la sua battaglia da più di 40 anni. Ha conquistato i clienti grazie alla sua trasparenza, alle sue scelte scomode e anticonvenzionali e alla qualità dei suoi prodotti. Ha saputo sviluppare da sempre un forte senso di community e, soprattutto, ha sempre fatto seguire le sue idee con azioni concrete (e viceversa).
  • WRÅD ci ha dimostrato che l’innovazione non passa solo per la vendita di vestiti. In un settore che necessita nuovi modelli di business, le idee non possono mancare. Qualche spunto? Formazione, ricerca di nuove tecnologie, consulenze di brand strategy e design.
  • Nicolò Puccini è un caso studio di successo non solo di un’impresa a gestione singola, ma anche (di nuovo) di un modello di business insolito, che passa dalla personalizzazione dei capi di seconda mano a lanci di collezioni uniche e irripetibili.

Se scaviamo ancora più in profondità, ci accorgiamo che alla fine i punti essenziali per avere successo in questo mercato sono tre, che accomunano tutti i brand che abbiamo citato.

La “salsa segreta”

Trasparenza

Anche se operiamo nello slow fashion, non significa che la nostra azienda e quello che produciamo siano sostenibili al 100%. Anzi, questa sarebbe un’aspettativa utopica (e che nessun consumatore richiede). Quello che le persone vogliono sono dati trasparenti e onesti, per diversi motivi:

  • Il primo è il bisogno di fiducia. Le persone vogliono potersi fidare di un brand e sapere cosa effettivamente stanno comprando. Non basta dire che una maglietta è “sostenibile”. Anche perché, cosa significa “sostenibile”? Pensa che nemmeno un’azienda del calibro di Patagonia usa la parola “sostenibile” nelle sue comunicazioni. I dati parlano in modo chiaro e inequivocabile.
  • Il secondo, più nascosto, è per un motivo di orgoglio personale. Sapere di comprare qualcosa che non solo fa bene a noi stessi, ma che ha anche basso impatto sull’ambiente, ci fa stare meglio (e magari ne parliamo spontaneamente anche con un amico).

Qui la lezione è semplice: mettere tutto nero su bianco.

La trasparenza può passare anche per delle campagne di comunicazione ad hoc: la pubblicità “Don’t buy this jacket” ne è un esempio lampante.

Educare

Informarsi da soli a volte è difficile, e capire cosa fare o da chi comprare è ancora più complesso. Il mercato ha bisogno di qualcuno che dissipi la nebbia e mostri le cose in modo chiaro.

Attenzione però, l’educazione può passare per due pubblici differenti:

  • Il più scontato, ovviamente, è quello dei clienti e consumatori. Con loro è importante raccontare quello che fai e le scelte che prendi, e soprattutto perché lo fai. Puoi spiegare perché sia sbagliato comprare certi capi, e perché invece altre pratiche sono più sostenibili. Puoi farlo anche in modo creativo, un po’ come ha fatto Patagonia con il Worn Wear Wagon. Il risvolto che avrai è più persone che si fideranno di te, e che molto probabilmente compreranno da te rispetto a qualcun altro.
  • Il secondo tassello passa per la formazione e l’educazione aziendale, come fa WRÅD. Pensaci: magari ci sono delle aziende che vorrebbero cambiare il loro modello e diventare sostenibili, ma forse non hanno i mezzi e le conoscenze per farlo.

Community

La storia ci racconta che ci siamo evoluti in tribù. Il nostro bisogno di appartenenza a un gruppo è uno dei nostri istinti più forti e naturali.

Ecco perché, nel costruire un’azienda, uno dei primi passi che dovremmo fare è quello di creare un ecosistema di valori e credenze unico, che parli a uno specifico gruppo di persone e le faccia sentire parte di qualcosa di più grande.

Un appunto: quando operiamo nello slow fashion, non parliamo solo agli “ambientalisti”.

Pensiamoci: Patagonia parla a sportivi amanti dell’outdoor. Come lo fa? Attraverso i suoi contenuti, gli Short Films che pubblica sul suo canale e le foto dei clienti che usa nei suoi cataloghi.

Se siamo un’azienda più piccola possiamo costruire una relazione in modo ancora più stretto e autentico.

Guardiamo l’esempio di Nicolò Puccini, un personal brand che comunica molto attraverso le Instagram stories e che mostra sempre i retroscena del suo lavoro.

La newsletter che dà accesso anticipato alle sue collezioni esclusive fortifica ancora di più il senso di Community legato ai suoi prodotti.

Qui le idee sono infinite, e possono essere anche molto semplici.

In generale, questi tre fattori di successo (Trasparenza, Educazione e Community) sono strettamente collegati tra loro.

Un unico messaggio o campagna pubblicitaria può facilmente racchiuderli tutti e tre. Un po’ come quando Patagonia ha annunciato di non pagare più le Facebook Ads:

  • È stata trasparente col suo pubblico, annunciando anche una sua potenziale perdita economica.
  • Ha educato le persone: magari non tutti sapevano che l’universo Meta accettava di sponsorizzare anche contenuti di disinformazione.
  • Ha unito ancora di più la sua Community e i suoi clienti attenti alla crisi climatica.

C’è una sola lezione, però, ancora più importante: ciò che comunichiamo si deve fondare su azioni e scelte concrete. No greenwashing, no false testimonianze. La “sostenibilità” che passa solo per la comunicazione non funziona.

Per avere successo in questo mercato, questa è la singola via più sicura.

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