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Come cambierà l’industria del cibo e il nostro modo di mangiare?

Lewis Hamilton, Arnold Scwarzenegger, Chris Paul, Pumbaa, Vertical Farm, Netflix.

Cosa c’entra tutto questo con il cibo?

Domanda tanto lecita quanto scontata. Di primo acchito poco o niente, se non per il riferimento alle coltivazioni “in verticale” sulle quali avremo modo di soffermarci più avanti.

Un pilota di Formula 1, un attore e politico, un cestista NBA, un’azienda (sì, Pumba non è solo il famoso facocero de “Il Re Leone”), l’agricoltura del futuro e il sito di streaming più famoso del globo.

Eppure, in un senso o nell’altro, tutte le parti citate si sono impegnate, più o meno attivamente, nel lanciare un segnale sul modo in cui tutti noi ci nutriamo utilizzando il potere dettato dalla loro influenza popolare.

La stressante giornata di lavoro è terminata, prepari la cena (o la ordini: stasera non hai proprio voglia di metterti anche a cucinare) e decidi di consumarla, magari sul divano, davanti alla più classica serata dedicata a un film o a una serie tv.

Apri Netflix sulla tua Smart TV, un po’ di ricerca e ti imbatti in questo film-documentario “The Game Changers”. E leggi: “Racconto della vita di atleti professionisti che hanno scelto di adottare una dieta a base vegetale ottenendo grandi risultati”.

Ti fai convincere, magari proprio mentre mangi il classico hamburger doppio. Da lì ti si apre un mondo da approfondire: il futuro della carne animale, proteine vegetali, gas serra, allevamenti intensivi e sostenibilità ambientale.

Da Netflix a quello che ingeriamo quotidianamente: un passo che sembra tutt’altro che breve, ma che in realtà si connette in pochi attimi.

The Game Changers segue la storia del campione di Ultimate Fighting James Wilks, ma non mancano altri confronti: da Lewis Hamilton, che oltre a seguire una dieta vegana ha aperto una catena di fast food a base vegetale (il Neat Burger di Londra), fino al tennista Novak Djokovic, arrivando a una delle stelle del basket mondiale Chris Paul.

Influenza culturale, si è detto.

È impressionante, a questo proposito, il caso di La regina degli scacchi, recente serie Netflix di enorme successo.

I 62 milioni di spettatori sparsi in giro per il mondo si sono trasformati tanto in un aumento degli accessi ai portali di scacchi quanto a un boom di vendite di scacchiere e pezzi (+210%).

È il caso, allora, di fermarsi a ragionare su alcuni degli spunti che The Game Changers e altri prodotti editoriali lanciano.

Il nostro modo di mangiare sta cambiando? E se sì, come stravolgerà tutto il business che gira intorno al cibo? In questo Marketers Insight cerchiamo le risposte a queste due domande. Mettetevi comodi, si parte.

La rotta fin qui

“Historia magistra vitae”, diceva Cicerone.

Tutto si evolve, tutto si trasforma seguendo contesti sociali e bisogni che le persone devono soddisfare nel corso della loro vita. E il cibo, nel corso degli anni, è tra i settori maggiormente sottoposti a cambiamenti a seconda di cambiamenti e nuove scoperte.

L’uomo, raccontano diversi studi scientifici, è da sempre onnivoro: come tutti i primati è capace di ingerire più o meno qualsiasi tipo di alimento.

Ai tempi della preistoria l’uomo era principalmente raccoglitore, ossia si cibava di quanto offriva la terra (frutta e verdura) e quel che restava delle carcasse degli animali cacciati dai grandi predatori. Col passare degli anni, anche con l’ausilio del fuoco, ha iniziato a divenire anch’esso predatore.

Nell’Antica Grecia l’alimentazione si basava principalmente su zuppe di cereali e di pane, accompagnate da olio d’oliva, ortaggi, vino e formaggio di pecora o capra, ma anche pesce per le popolazioni a ridosso dei corsi d’acqua. La carne solo durante pasti più sontuosi o festività, ma comunque in quantità limitate: non più di uno o due chili a testa all’anno.

Nell’Antica Roma spazio a pane, legumi, frutta, vino, ma anche pesce e carne, quest’ultima, inizialmente, consumata dai ceti più abbienti. Principalmente carne suina poiché la macellazione dei bovini fu proibita a lungo per non sottrarli al lavoro dei campi.

Tra Alto e Basso Medioevo, invece, la dieta europea diventò più equilibrata: tanto vegetale quanto animale. Mentre in città si consumava pane bianco e carni fresche, nelle campagne aumentò il consumo di pane nero e carni di maiale salate.

Sarà poi durante l’età moderna e, ovviamente, l’età contemporanea che il progresso tecnologico e lo sviluppo del commercio mondiale hanno consentito diete più variegate, ricche anche di prodotti una volta esotici.

Come detto, l’uomo da sempre ha avuto una connotazione onnivora capace – almeno sembra – di giocare un ruolo importante nell’evoluzione della specie. L’impossibilità di consumare carne cruda, secondo uno studio di Harvard pubblicato da Nature, avrebbe determinato un rimpicciolimento dell’apparato masticatorio e digestivo.

Tutto è iniziato circa 2 milioni di anni fa. Esattamente quando altri cambiamenti, come l’aumento delle dimensioni del corpo e del cervello, hanno aumentato il fabbisogno energetico.

I risultati della ricerca hanno dimostrato che la dieta perfetta era formata per un terzo di carne e due terzi di vegetali. Con un se: solo se processati con l’utilizzo di strumenti.

La carne non processata è risultata impossibile da consumare. Piccoli pezzi di carne sottili, ingoiati interi e assieme a tuberi e radici pestate, permettono di masticare il 17% in meno e con una forza inferiore del 26%, confrontate con tutte le altre possibili combinazioni dei tempi testate.

Via al consumo di carne per dedicare meno tempo alla raccolta e al pasto stesso. Per farlo hanno così sviluppato strategie che hanno dato il via a modifiche morfologiche dando i natali a linguaggio e evoluzione delle capacità intellettive.

La paleontologa di Harvard Katherine Zink ha così riassunto:

“Se utilizzi meno forza e mastichi di meno, trascorri una parte minore della giornata a mangiare. E se non hai più bisogno di mantenere denti e mascelle potenti, la selezione naturale è libera di migliorare altri tipi di performance per la sopravvivenza”.

La bussola del mercato

Il futuro della carne

Secondo le stime della FAO (Food and Agriculture Organization), nel 2050 gli abitanti della Terra sfioreranno i 10 miliardi di persone e l’obiettivo dovrà essere quello di garantire a tutti la possibilità di sfamarsi senza distruggere il pianeta.

Passare ad un regime alimentare vegano permetterebbe di ridurre le emissioni di anidride carbonica. Ma è possibile ottenere risultati positivi anche solo diminuendo il consumo di carne bovina in quanto la produzione di 1 chilo di carne implica il rilascio di 27 chili di CO² nell’atmosfera.

Nuove alternative (alcune delle quali sono già una realtà in qualche area del mondo) per diminuire l’impronta ecologica degli alimenti potrebbero essere insetti, carne in laboratorio, colture idroponiche, tecnologie di stampa in 3D in grado di replicare la consistenza e i sapori dei cibi tradizionali.

Un versante in rapida evoluzione è proprio quello della produzione di pesce e carne in laboratorio, partendo da cellule estratte dagli animali: alcuni scienziati dell’Università di Bath stanno iniziando a coltivare pancetta su fili d’erba mentre in California sono stati prodotti i primi bocconcini di pollo in un bioreattore senza uccidere alcun animale.

Bruce Friedrich, membro del GFI (Good Food Institute), sostiene che entro il 2050 mangeremo tutti carne coltivata e non esisteranno quasi più macelli e fattorie.

Per quanto riguarda gli insetti, il regolamento europeo sul novel food aveva introdotto una prima autorizzazione generale alla commercializzazione degli stessi a fini alimentari, ma essa è consentita solo in un “regime di tolleranza” da parte degli Stati membri interessati.

Anche l’agricoltura dovrà fare la sua parte, affidandosi a tutte le tecnologie che permettono di ridurre gli input chimici e idrici tra cui satelliti per il monitoraggio dei sistemi agricoli.

Risorse Marketers
Marketers Insight - L'industria del cibo

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Secondo un’indagine di Greenpeace, gli allevamenti intensivi contribuiscono anche alla formazione di polveri sottili. In Italia, tra il 1990 e il 2018, è diminuito l’inquinamento dovuto ai trasporti su strada, all’industria e alla produzione energetica. Però è aumentata del 10% la quota legata all’allevamento.

Se la popolazione dei paesi industrializzati riuscisse a raddoppiare, entro il 2050, i consumi di vegetali e dimezzasse quelli di zuccheri, farine raffinate e carni rosse e trasformate, verrebbe frenato il riscaldamento globale. E si eviterebbero almeno 11 milioni e mezzo di decessi prematuri all’anno dovuti ad abitudini alimentari malsane.

Nel 2020 ogni abitante della Terra ha portato in tavola in media 75 kg di proteine animali. Secondo il report del Boston Consulting Group il picco di consumo di carne si avrà nel 2025 per poi calare e lasciare spazio alla “carne non-carne” a base di proteine di legumi, fatta con funghi ed alghe oppure creata in laboratorio senza uccidere animali.

Inoltre, sempre nel 2020, nel mondo sono state consumate circa 13 milioni di tonnellate di alternative vegetali alla carne come i burger di fake meat: secondo l’analisi, entro il 2035 il consumo delle alternative ai prodotti di origine animale arriverà all’11 per cento raggiungendo un valore di 290 miliardi di dollari. Nel 2035, previo miglioramento tecnologico, si potrà arrivare al 22%.

I punti di forza di queste alternative coinvolgono anche l’aspetto etico, dato che non richiedono sofferenze degli animali, e quello della sostenibilità, considerato il grande peso in termini di impronta climatica che hanno gli allevamenti.

La competizione con la carne originale è sotto diversi aspetti molto alta, ma sono proprio questi gli obiettivi che i produttori vogliono soddisfare creando un’alternativa credibile in tutto e per tutto: sapore, consistenza, prezzo, che è momentaneamente superiore rispetto alla carne vera, e apporto proteico.

Il BCG ipotizza che questi obiettivi saranno raggiunti dalla carne plant-based (fatta con proteine vegetali ottenute dai legumi) nel 2023, da quella fatta con funghi, lieviti e alghe unicellulari entro il 2025 e le alternative da laboratorio entro il 2032.

Carne sintetica

Il futuro della carne

La catena del valore della carne prodotta in laboratorio è decisamente semplificata rispetto a quella della tradizionale produzione in quanto la prima potrebbe prendere il posto di fattorie e macelli.

Metodo tradizionale di produzione di carne:

  • Barn-breeding: allevamento;
  • Feedlot: è un’operazione di alimentazione degli animali destinati al macello e consiste nel far prendere quanto più grasso nel minor tempo possibile;
  • Slaughter: macello;
  • Processing: lavorazione.

Metodo Lab-Grown:

  • Live-Tissue sampling: campionatura/prelievo del tessuto “vivo” dell’animale;
  • Cells multiply into meat: le cellule si moltiplicano nella carne con l’aiuto di amminoacidi e carboidrati.

Entrambe poi, logicamente, si indirizzano verso la distribuzione, la vendita al dettaglio e, infine, al consumo.

Qua invece il processo di produzione di un hamburger:

  • Il tessuto viene prelevato dalla mucca;
  • Le cellule staminali vengono estratte dal tessuto;
  • Le cellule staminali vengono poi coltivate in fibre muscolari in laboratorio in sei settimane;
  • 20,000 fibre muscolari vengono poi tinte, macinate e mescolate con il grasso e modellate nella forma degli hamburger.

Anche KFC al passo coi tempi

I primi nugget artificiali: è questo a cui una delle aziende di fast food più importanti del mondo sta lavorando. La catena statunitense KFC, Kentucky Fried Chicken, specializzata in pollo fritto ha annunciato la collaborazione con la società russa di bioingegneria Bioprinting Solutions per sviluppare una tecnologia che “stamperà” carne di pollo usando cellule animali di partenza su colture vegetali.

Il target resta sempre lo stesso: cercare di replicare sapore e consistenza dei nugget, di cui KFC è tra i migliori produttori in giro per il globo, utilizzando materia prima cellulare associata a uno sviluppo in laboratorio con l’aggiunta delle caratterizzanti spezie e impanature.

Il processo produttivo implicherà cellule animali, ma i bocconcini biostampati saranno decisamente più ecosostenibili: la carne di pollo ricavata in maniera tradizionale ricorre agli allevamenti intensivi diventando spada di Damocle per l’ambiente. La carne in laboratorio, invece, offre un conto più leggero soffermandosi su gas inquinanti (25% in meno), consumo di energia (dimezzato) e abbatte anche i costi di approvvigionamento.

Così, il co-fondatore di 3D Bioprinting Solutions Yusef Khesuani: “Il rapido sviluppo di questi sistemi ci permetterà in futuro di produrre carne stampata in 3D più economica. La speranza è che le tecnologie sviluppate in collaborazione con KFC accelerino il lancio di carne sintetica sul mercato”.

In attesa dei risultati dei test di KFC, esistono già delle pepite di pollo approvate e distribuite sul mercato.

La Singapore Food Agency ha infatti approvato i bocconcini di pollo di laboratorio prodotti dall’americana Eat Just dopo un controllo sulla sicurezza. E questa è stata la prima volta che la carne sintetica è stata “accettata”. Eat Just ha da tempo come prodotto di punta, in questo mercato, le uova sintetiche, che sono già in vendita con tanto di ricettario sul sito.

Il maggior ostacolo finora della carne sintetica è il prezzo, dovuto al costo molto elevato dei fluidi ricchi di nutrienti usati per far moltiplicare le cellule animali. Il ristorante 1880 di Singapore offre un tris di piatti: panino bao con pollo croccante al sesamo e cipollotto; pasta fillo con pollo coltivato e purea di fagioli neri e un croccante waffle d’acero con pollo coltivato con spezie e salsa piccante. Un tris da circa 23 dollari.

Nuove diete: dalle necessità alle scelte

Una delle parole chiave di questi anni del terzo millennio è intolleranze. Intolleranze alimentari che sono sempre più diffuse e in aumento nella popolazione mondiale.

I tipi di intolleranze sono vari: al glutine e ai cereali, alle carni bianche e rosse, a ortaggi, tuberi, legumi passando per pesci e crostacei fino ad arrivare a quelle al lattosio.

Intolleranze e allergie che crescono di anno in anno e che si verificano per cause differenti come il cambiamento delle condizioni ambientali o climatiche che favoriscono incisivamente l’indebolimento del nostro sistema immunitario. Le statistiche raccontano di intolleranze triplicate negli ultimi 40 anni.

Negli anni Ottanta, raccontati dati Istat, a soffrirne era il 2,9% della popolazione mentre oggi la percentuale è salita al 12,7%. In più di 300mila persone sono allergiche al latte, 1,1 milioni al lattosio, 3 milioni al glutine con oltre 300 mila sono celiache. A queste vanno aggiunti 5 milioni di allergici al Nichel, metallo contenuto in vari alimenti come cacao, noci, mandorle, e oltre 100 mila che non tollerano gli additivi alimentari.

Il Nord Italia censisce il maggior numero di casi: in testa Lombardia con il 12,7% e Valle d’Aosta con il 12,4%. Il Sud invece ne conta 9,7% con la Campania all’8,1%, il Molise all’8,2% e la Sicilia al 9,4%.

Uno studio pubblicato sul JAMA Network Open si è focalizzato sulle allergie negli adulti e, analizzando oltre 40.000 persone negli Stati Uniti, ha scoperto un tema interessante: 1 adulto su 10 ha un’allergia alimentare e quasi il doppio pensa di essere allergico a determinati alimenti nonostante non sia stato diagnosticato nulla a livello medico.

Soffermandosi, invece, sulle persone con un’allergia diagnosticata (circa 26 milioni di persone negli USA), l’analisi racconta che:

  • Le allergie alimentari più diffuse nella fascia d’età adulta sono quelle ai crostacei seguiti da latte, arachidi, noci e pesce;
  • Più della metà delle persone allergiche ha reso noto di aver sofferto una grave reazione allergica e il 38% ha dichiarato di aver effettuato almeno una visita al pronto soccorso. Causa principale: le arachidi;
  • Il 45% è allergico a più di un singolo alimento.

L’attenzione a ciò che ingeriamo porta una larga fetta di popolazione a concentrarsi su regimi alimentari specifici per seguire nel migliore dei modi la salute del proprio organismo in relazione all’ambiente in cui vive.

E quali sono le diete più popolari del 2020? No, né quella mediterranea né quella Weight Watchers (sistema di valutazione matematica delle calorie introdotte).

Secondo la ricerca condotta da Ali Webster, dietista e direttrice delle comunicazioni di ricerca e nutrizione presso l’IFIC (International Food Information Council) i piani alimentari più seguiti sono:

  • Digiuno intermittente quota 10%. Il digiuno intermittente è un modello alimentare che alterna periodi di assunzione calorica minima (500-600 calorie) e periodi in cui puoi mangiare quanto vuoi senza restrizioni caloriche;
  • Mangiare sano al 9%. Questo semplice programma alimentare da 1.500 calorie, circa, contiene cibi integrali sani e limita gli alimenti trasformati per aiutare a ripulire il regime alimentare. In 14 giorni di pasti e spuntini sani questo programma è un ottimo modo per aumentare l’assunzione di cibi buoni per l’organismo (cereali integrali, proteine magre, grassi sani e molta frutta e verdura), limitando allo stesso tempo alimenti che possono far sentire non troppo bene se consumati in grandi quantità (carboidrati raffinati, alcol, zuccheri aggiunti e grassi idrogenati).
  • Chetogenica o ad alto contenuto di grassi: 8%. La dieta chetogenica propone un regime alimentare duro che rivoluziona il funzionamento del metabolismo. Se solitamente la fonte energetica primaria per l’organismo è lo zucchero (quindi i carboidrati), nel caso di questa dieta la fonte primaria è rappresentata dai grassi.
  • Basso contenuto di carboidrati: 7%.

A queste diete se ne aggiungono altre meno popolari ma non per questo poco seguite:

  • la paleodieta consente di mangiare solo cibi che esistevano nell’era paleolitica come carne magra, pesce, crostacei e molluschi, verdura, semi, radici, bacche, frutta e miele;
  • simile alla paleodieta, la Whole30 è un programma della durata di 30 giorni che enfatizza l’assunzione di cibi naturali e non trasformati, raffinati e privi di valore nutritivo;
  • la dieta carnivora climatica, uno stile onnivoro con almeno il 75% del consumo di carne di ruminanti e di prodotti lattiero-caseari sostituito da carne di maiale, coniglio, pollo e tacchino. Carni come manzo e agnello hanno l’impatto climatico maggiore per grammo di proteine, mentre i vegetali tendono ad averne il minore;
  • la dieta pescetariana (consumo di pesce, ma non di carne);
  • la dieta Dukan, che promette dimagrimento veloce con macroalimento preponderante quello delle proteine;
  • la dieta vegetariana, che esclude carne e pesce, ma non uova, latte e latticini;
  • la dieta vegana ammette solo fonti vegetali.

Ampia scelta, ma per migliorare la propria salute e le condizioni ambientali non è necessario rinunciare del tutto alla carne rossa per fare la differenza. Si può scegliere di essere eco-carnivori riducendone il consumo. È certo, però, che sono le fonti proteiche vegetali ad essere le scelte più rispettose per il clima. In linea generale è stimato che un occidentale medio dovrebbe raddoppiare il consumo di vegetali rispetto ai suoi standard.

In Italia sono sempre di più le persone che seguono i regimi vegetariani e vegani. Lo conferma Il Rapporto Italia 2020 di Eurispes dal quale emerge che la percentuale è dell’8,9%, con il 2,2% degli italiani che ha scelto un’alimentazione totalmente priva di prodotti animali. Due le motivazioni principali: un’etica e una salutistica. Si diventa vegani per ragioni di salute e di benessere (23,2%), ma anche per amore e rispetto per il mondo animale e ambientale (22,2%).

Di mezzo anche la figura del consumatore flexitarian.

Il costante incremento delle vendite in questo settore va attribuito solo in parte ai consumatori vegetariani e vegani.

Il consumatore flexitarian gioca un ruolo fondamentale: si tratta di persone che non si definiscono né vegetariane né vegane, ma che diminuiscono considerevolmente l’acquisto di alimenti di origine animale in favore di prodotti plant-based. Al momento non ci sono ancora dati ufficiali che tengano conto del numero di persone flexitarian: la certezza è che si tratti anche di cifre in grande ascesa.

Le motivazioni, anche in questo caso, vanno ricollegate alla situazione ambientale o connesse alla convinzione che gli alimenti vegetali siano più sani di quelli animali. Altrettanto certo è che la grande crescita dell’economia plant-based degli ultimi anni è dovuta anche a quella parte di consumatori consapevoli e informati che spostano i propri acquisti verso proteine di origine vegetale e stili di vita più sani.

La startup Veghu

Veghurino classico

E chi concentra la sua azienda sull’economia plant-based è la startup Veghu. L’inventore Marcello Contu è riuscito, dopo diversi studi, a dar vita a un formaggio vegetale senza ingredienti di origine animale, creato però con metodologie e processi presi dalla tradizione.

Veghu è una startup innovativa che si concentra su prodotti di origine sarda. Si tratta di un laboratorio dove è possibile trovare formaggio, ma anche ingredienti per l’autoproduzione come il riso, mandorle, anacardi, muffe e tanto altro. In più, Veghu offre anche la possibilità di partecipare ai corsi per imparare a dar vita al formaggio vegetale e apprendere nozioni di teoria generale su tecniche, materiali, strumenti e preparazioni.

Tra i prodotti in vendita, c’è a disposizione il “Veghurino”, (che richiama il pecorino) classico e tartufato (prezzo originale di 12.90 euro), o la “Riskotta” (13.90 euro) fatta di anacardi, acqua, V-enzy, fermenti vegani e sale marino sardo.

I cibi del futuro e i gusti dei giovani

Proteine vegetali

Una delle alternative alla carne animale sempre più in voga è quella che sopperisce al fabbisogno proteico dell’essere umano con alimenti di tipo vegetale. Un mercato, che in soli 10 anni è riuscito ad arrivare al valore complessivo di oltre 100 miliardi di dollari.

Prevalentemente si tratta di soia oppure di legumi, in maniera principale. Aziende al top in questo settore come Beyond Meat trattano piselli e fagioli indiani, ma anche di un mix di grano, olio di cocco, patate ed heme: insomma, tante possibili combinazioni.

La quantità di proteine contenuta in questi cibi risulta essere molto simile a quella della carne animale: così viene offerta un’alternativa estremamente competitiva dal punto di vista di benessere e salute dell’organismo.

La carne vegetale può essere tante cose differenti. Quella su cui si stanno concentrando gli sforzi delle multinazionali ha aspetto, sapore e profumo molto simili alla carne vera.

Con una differenza non di poco conto: per la sua produzione vengono impiegate molte meno risorse ambientali.

Un burger di Impossible Foods, colosso della fake meat internazionale, viene prodotto emettendo l’87% di gas serra in meno rispetto a un hamburger di bovino, utilizzando il 75% di acqua e il 95% di terra in meno. Tutto logicamente senza allevamenti intensivi nei quali crescono gli animali.

Negli Stati Uniti la carne vegetale è acquistabile ovunque: dai supermercati ai fast food come Burger King e McDonald’s. Questi ultimi, recentemente, hanno iniziato a introdurla anche nel nostro paese dove non è così semplice da reperire in commercio.

Il consumo, però, è in crescita costante: il GFI (Good Food Institute) ha calcolato che nel 2020 più della metà delle famiglie americane ha comprato prodotti di stampo vegetale che replicano quello animale e il 18%, all’incirca 23 milioni di famiglie, ha acquistato almeno una volta carne vegetale con un incremento del 4% rispetto al 2019.

La Plant Based Food Association, invece, ha riportato che nel 2020 la vendita di carne vegetale negli Stati Uniti è aumentata del 45% rispetto all’anno precedente. Il giro di affari ha raggiunto il miliardo e 400 milioni di dollari contro i 962 milioni di dollari del 2019.

Il GFI ha riportato, in aggiunta, che nel 2020 il mercato delle proteine vegetali ha raccolto investimenti che superano i 3 miliardi di dollari con una crescita tre volte superiore al 2019 e quasi cinque volte al 2018.

Un settore, dunque, in crescita costante al quale ultimamente anche aziende note a livello internazionale per la produzione di carne animale come JBS e Tyson Foods si sono avvicinate dando vita a prodotti a base vegetale come burger e wurstel.

Impossible Foods

“We are meat” è la prima campagna pubblicitaria per il grande pubblico lanciata da Impossible Foods per promuovere uno dei prodotti di punta: l’Impossible Burger.

L’obiettivo è conquistare gli amanti della carne convincendoli che le stesse sensazioni del dare un morso a un burger di origine animale possano essere garantite anche da un prodotto di origine vegetale.

I 5 brevi video, narrati dalla voce dell’attore Scott Glenn e destinati sia al web che alla televisione, lanciano un chiaro messaggio ai golosi di carne: il loro burger è indistinguibile dai prodotti di origine animale.

Negli spot l’origine vegetale del prodotto è dichiarata solo verso la fine: quasi come fosse una sorpresa, vedendo la succulenza nella cottura dei burger. Insomma, per dirla in breve, il focus è più sul gusto che sull’etica.

Questa campagna pubblicitaria giunge dopo un anno di grandissima crescita per Impossible Foods: da poco ha ricevuto un finanziamento da 200 milioni di dollari per ricerca e sviluppo e vede ormai i propri prodotti disponibili in più di 20 mila negozi in America. Non ancora in Europa, dove Impossible Foods attende il via libera della Commissione Europea sulla sicurezza alimentare dei suoi prodotti.

Tutto ruota attorno all’heme, leghemoglobina di soia in grado di far “sanguinare” i burger conferendo loro un aspetto simile a quelli animali. L’azienda produce questa molecola, recuperabile anche in natura, in laboratorio per diminuire l’impatto ambientale.

La comunicazione di Impossible Foods è differente rispetto a quella della principale azienda di produzione di carne vegetale: Beyond Meat.

Tra le primissime sperimentazioni della carne plant-based ci sono i Beyond Burger, prodotti da questa startup fondata nel 2009. Generalmente includono proteine da piselli, lievito, succo di barbabietola, olio di cocco, amido di patate.

Il loro concetto, anche a livello comunicativo, è sempre stato quello di andare oltre la concezione classica di carne. Anche qui il messaggio utilizzato nei primi spot pubblicitari è stato: “Cosa succederebbe se andassimo oltre?”.

Si immagina un futuro differente, dove tutti smettiamo di cibarci di carne. Senza “accusare” chi la consuma, ma offrendo un’alternativa migliore per tutti. Creando maggiore consapevolezza e informando la popolazione sulla presenza di alternative sostenibili anche per l’ambiente.

La startup californiana si sta espandendo anche in Europa non solo con i suoi burger, ma anche con la produzione avendo acquisito un sito produttivo nella città di Enschede, in Olanda.

In Italia, l’azienda Joy Food, proprietaria del marchio Food Evolution, produce per il mercato del nostro paese, e non solo, delle alternative alla carne animale basandosi su ingredienti plant-based. Anche Joy Food ha prodotto una campagna pubblicitaria (“Eat different, make the difference“) atta a informare i cittadini sulle conseguenze portate dal consumo di carne.

KFC e Beyond Meat insieme

Da un lato la collaborazione di Impossible Foods con Burger King e dall’altro quella di Beyond Meat con KFC.

La catena di fast food americana Kentucky Fried Chicken collabora con Beyond Meat nella produzione del classico pollo fritto, ma fatto con carne a base vegetale. Prende il nome di Beyond Fried Chicken e rappresenta l’alternativa vegan al suo piatto di punta.

Disponibile negli Stati Uniti d’America, simboleggia un’apertura rilevante considerato il fatto che chi ha avuto interesse a proporre un’alternativa simile ha da sempre puntato sulla forza della carne del proprio pollo.

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Tattooed Chef

Un’altra azienda che si sofferma sulla produzione di alimenti plant-based è Tattooed Chef. TC offre una vasta gamma di alimenti a base vegetale con l’obiettivo creare benessere per le persone e per l’ambiente.

Ha a disposizione due stabilimenti di produzione: uno negli Stati Uniti d’America e uno in Italia in provincia di Latina. E proprio dal nostro paese arriva la maggior parte degli ingredienti utilizzati dall’azienda con coltivazione di campi. “Gestiamo il cibo dai campi alle mani del consumatore, offrendo una vera gamma di prodotti dalla fattoria alla tavola”, si legge sul sito.

La gamma degli alimenti che vendono è piuttosto varia, composta di ingredienti freschi, raccolti quando di stagione e congelati rapidamente per mantenere intatte le sostanze nutrienti e il gusto.

Al prezzo di 10 dollari è possibile, ad esempio, acquistare i Buffalo Cauliflowers Burger ricchi di verdure e salsa buffalo piccante.

Tattoed Chef

Cibo fantascientifico

Sci-fi food, viene chiamata così questa nuova frontiera dell’industria alimentare. I ricercatori della Lappeenranta University of Technology di Lahti in Finlandia hanno pensato a questo cibo fantascientifico: nei laboratori del VTT Technical Research Centre sono riusciti a produrre una proteina da cellula singola, registrata col nome di Solein, impiegando solamente acqua, aria ed elettricità.

Dai test in laboratorio alla creazione di una vera e propria startup, Solar Foods, che ha in mente di ribaltare totalmente l’idea della produzione degli alimenti nel prossimo futuro. Sia per soddisfare il bisogno degli esseri umani di introdurre all’interno del proprio organismo proteine, carboidrati e grassi, sia per modificare l’impronta ecologica che la catena alimentare ha sull’ambiente.

Il processo di preparazione prevede la fermentazione naturale di lievito e acido lattico. La polvere prodotta (al momento un kg al giorno) è composta per circa il 65% di proteine, dal 1020% di carboidrati e dal 410% di grassi con la restante parte di componente minerale. Polvere insapore che può essere integrata a diversi prodotti: finora i test hanno coinvolto dagli yogurt a piatti completi.

Gli insetti

Gli insetti vengono considerati il cibo del futuro in quanto economici, diffusi ovunque, parecchio proteici e con la possibilità di allevarli con un impatto piuttosto limitato sull’ambiente. Nel 2016 la casa editrice Logos ha pubblicato Cucinare con gli insetti con 38 ricette realizzate solo con 4 specie di insetti, le uniche allevate in Europa per l’alimentazione umana: cavallette, grilli, larve di tenebrione mugnaio e larve di alfitobio.

Diversi i benefici che l’inserimento del mondo degli insetti, già consumati come cibo dal 25% della popolazione mondiale (anche in paesi europei) nell’abitudine alimentare, può portare:

  • gli insetti sono iperproteici, molti non contengono glutine e alcuni sono ricchi di antiossidanti. I grilli, ad esempio, sono composti dal 60-80% da proteine;
  • La produzione di 1 kg di grilli ha bisogno di 15k litri di acqua in meno rispetto a quanto occorre per produrre 1 kg di carne di manzo e il processo produttivo della farina di grillo produce 100 volte meno gas serra di quello della carne;
  • Secondo la IPIFF (International Platform of Insects for Food and Feed), nel 2019, gli investimenti delle aziende che allevano e trasformano gli insetti in cibo hanno raggiunto i 600 milioni di euro nel nostro continente.

L’idea di Pumbaa

No, come dicevamo all’inizio, non si tratta del personaggio del cartone animato della Disney il Re Leone.

Pumbaa è una startup che si fonda sulla produzione di snack, dolci e salati, a base di farine di insetti commestibili. Due i principali motivi che hanno spinto alcuni ragazzi dell’Università di Teramo a dare vita a Pumbaa: l’aumento di richieste di proteine animali da parte degli sportivi e la crescita di casi di celiachia e intolleranza al lattosio degli ultimi anni.

Questa startup offre l’opportunità di avvicinarsi al mondo dell’entomofagia realizzando degli snack con ingredienti personalizzabili. Con l’assicurazione della realizzazione di alimenti senza glutine e senza lattosio nel caso delle intolleranze e con altissima biodisponibilità proteica ed ecosostenibile e fornita in modo particolare dalla farina di grillo nel caso degli sportivi.

L’industria del cibo, però, ça va sans dire, coinvolge più elementi. Molti dei quali in costante modifica, anche per raccogliere la, sempre più in crescita, voglia di novità delle nuove generazioni.

Giovani che spesso e volentieri sono stuzzicati dai nuovi gusti che il panorama del food mondiale può offrire.

  • Kimchi coreano sono le nuove patatine piccanti? I cibi fermentati sembrano essere passato, presente e futuro di piatti e ricette in tutto il mondo. I motivi? Perché mettono a frutto un’efficace tecnica di conservazione degli alimenti di lunga data, ma ancora molto valida. E perché apportano una serie di benefici al nostro organismo depurandolo, favorendo la digestione e prevenendo le patologie infiammatorie.

Riflettendoci su, siamo letteralmente circondati da prodotti fermentati e, su tutti, il più comune è lo yogurt. Alcuni scienziati sottolineano che praticamente tutto si può fermentare ed è per questo che si tratta di una modalità di conservazione antica, sempre attuale e proiettata verso il futuro.

  • Il “caso” Hot Chocolate Bomb

Perché un caso? Perché nel 2020 i tag #HotChocolateBomb e #HotCocoaBomb hanno raccolto in pochi giorni oltre 40 milioni di visualizzazioni su TikTok. Si tratta di bombe gourmet al cacao con, solitamente, mini marshmellows al loro interno da far sciogliere all’interno di bevande calde. Una delizia sì, ma capace, grazie all’utilizzo dei social media, di coinvolgere una larga scala di giovani in tutto il globo.

I video possono essere decisamente differenti tra loro, ma tutte le ricette delle Hot Chocolate Bomb visualizzate su TikTok si basano su un unico punto di partenza: creare un guscio sferico di cioccolato con all’interno altri ingredienti dolci. L’idea è che immergendo completamente la bomba nella bevanda calda, le pareti si sciolgano facendo emergere in superficie la farcitura interna.

Sia la preparazione che il momento finale danno particolare soddisfazione: sia ai creator che decidono di dare il via alla preparazione sia agli spettatori che rimangono con gli occhi incollati alle clip.

Amazon Hot Chocolate Bomb

Il grafico mostra l’impennata di ricerche su Amazon relative alla preparazione di Hot Chocolate Bomb prima e dopo l’esplosione del tag su TikTok e sugli altri social media.

Dagli stampi per prepararli fino agli ingredienti stessi: evidente che il mercato sia costantemente influenzato dalle tendenze e che le aziende debbano stare costantemente sul pezzo per cavalcare gli interessi più disparati. Dando più di un occhio ai social media e a gusti e volontà delle nuove generazioni che spesso e volentieri, con la diffusione repentina, danno vita a consumi inizialmente inattesi.

A differenza di altre mode, le tendenze alimentari tendono a rimanere: un esempio è la torta arcobaleno che quasi due anni dopo il boom di ricerche resiste con circa 18k al mese sui motori di ricerca.

  • Bubble Tea? No grazie, ecco il Cheese Tea. A Taiwan è stata inventata negli ultimi anni un’altra ricetta di moda. Si tratta del tè al formaggio: una base di tè freddo, verde o nero che può essere puro o aromatizzato. Il contenitore viene servito con l’aggiunta di formaggio cremoso o schiuma di latte. In Italia vengono proposti latticini come mascarpone e ricotta, all’estero brie o cheddar. Ancora poco presente nel Belpaese, il Cheese Tea sta lentamente diffondendosi negli USA.

 

  • Non solo cibo: anche gadget e playlist. L’alimento resta ovviamente il focus nelle vendite di ristoranti, bar e locali affini. Per farsi conoscere spargendo la voce, ma anche creando un grado di attenzione differente; infatti, alcuni addetti ai lavori si cimentano nell’inserimento di altre attrattive come gadget affiliati o playlist musicali. È il caso, ad esempio, di Dunkin’ Donuts, azienda famosa per la vendita delle ciambelle glassate, che ha sponsorizzato una scarpa di Saucony; oppure di KFC che ha venduto legna da ardere al profumo di pollo fritto. Fino ad arrivare a borse, zaini, magliette, cappellini con il proprio logo che possono fidelizzare il cliente. Alcuni ristoranti hanno addirittura sperimentato una propria colonna sonora resa disponibile su Spotify attraverso una playlist dedicata: Momofuku Ko, di proprietà dello chef stellato David Chang, e Kajitsu, musica fornita dal celebre compositore Ryuichi Sakamoto, due posti che hanno già introdotto questa novità.

Cresce l’attenzione allo spreco

Il 17% del cibo disponibile al consumo nel mondo viene sprecato. Un dato incredibile e un fenomeno che coinvolge tutti i paesi al di là della loro ricchezza. In numeri: 931 milioni di tonnellate di cibo nel 2019 sono finite nei bidoni dei rifiuti di famiglie, rivenditori, ristoranti e altri servizi alimentari per un peso equivalente a quello di 23 milioni di camion da 40 tonnellate a pieno carico. Lo rivela una nuova ricerca delle Nazioni Unite.

Dal 2014 a questa parte, il numero globale di persone colpite dalla fame è in costante crescita e oggi sono all’incirca 700 milioni fra uomini, donne e bambini a soffrire di denutrizione. Anche per questo motivo ridurre perdite e sprechi alimentari è essenziale.

Di progressi ne sono, per fortuna, stati fatti: negli ultimi trent’anni sono 300 milioni le persone che non soffrono più la fame nonostante la popolazione nel pianeta sia incrementata di quasi 2 miliardi.

Per l’economia globale il costo dello spreco si aggira attorno a 750 miliardi di dollari l’anno.

All’ingente danno economico si aggiunge anche quello ambientale. Infatti, lo spreco alimentare è responsabile di circa 4,4 miliardi di tonnellate di gas serra emessi nell’atmosfera e di un consumo di acqua pari a 170 miliardi di metri cubi.

I dati del nuovo Food Waste Index Report 2021 del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) e l’organizzazione Wrap raccontano nel dettaglio che a buttare cibo per la maggior parte sono le famiglie che scartano l’11% degli alimenti, mentre servizi e punti vendita al dettaglio ne sprecano rispettivamente il 5% e il 2%. A livello globale vengono gettati 121 kg di cibo a testa l’anno.

I consumatori oggi, secondo un’analisi dell’ONU, hanno bisogno di aiuto per ridurre gli sprechi a casa ed evitare così di penalizzare il sistema economico ambientale avendo maggiori linee guida e indicazioni.

L’anno di pandemia, racconta un’indagine di Coldiretti/Ixé, ha portato la popolazione italiana a una comprensione maggiore della situazione.

In occasione della prima Giornata internazionale della consapevolezza sugli sprechi e le perdite alimentari sono stati resi noti i dettagli dell’indagine succitata: nel 2020, il 54% della popolazione italiana (più di 1 italiano su 2) ha diminuito o annullato gli sprechi alimentari.

I dati raccolti dal Waste Watcher International Observatory con Distal Unibo per l’ottava giornata di prevenzione dello spreco alimentare, invece, segnalano che nell’anno passato sono state salvate 222mila tonnellate di cibo con un risparmio di 6euro pro capite.

E un sondaggio Mintel ha raccontato che il 36% dei clienti di ristoranti e punti vendita vorrebbe una riduzione delle confezioni.

Too good to go

Come cambierà l’industria del cibo e il nostro modo di mangiare? 2

Too Good To Go a primo impatto ricorda un’app di quelle consuete per ordinare cibo a domicilio. Un elenco di ristoranti, bar, supermercati e negozi alimentari con la distanza di ognuno dalla quella che è la posizione dell’ordine.

Le differenze e peculiarità saltano all’occhio poco dopo: si palesano una fascia oraria, un prezzo, di solito basso con una media che si aggira dai 2 ai 6euro. Cifra che è il costo di una Magic box la cui “magia”, appunto, è quella di far scomparire dai locali gli alimenti invenduti e farli ricomparire sulle tavole di chi li acquista.

Too Good To Go raccoglie 2 necessità:

  • combatte gli sprechi alimentari evitando il viaggio diretto nell’immondizia a cibo destinato, a fine giornata, in quel posto;
  • consente, risparmiando anche del denaro, alle persone di cibarsi con prodotti ancora in ottime condizioni.

TGTG nasce nel 2015 in Danimarca. Attualmente raccoglie oltre 14 milioni di utenti in 13 nazioni in giro per l’Europa e, mese dopo mese, si sta imponendo anche in Italia con presenza in diverse città del belpaese come Milano, Roma, Torino, Firenze, Bologna, Genova e Verona.

I dati sono estremamente positivi e lasciano ben sperare per il concetto che c’è dietro al servizio. A essere acquistato è oltre l’80% delle Magic Box, con picchi che sfiorano a tratti anche la totalità nelle città di Torino, Bologna e Verona.

Motivo per cui il sistema è virtuoso e accattivante è anche la quantità limitata delle proposte che, essendo eccedenze, dipendono dalla giornata delle varie postazioni. Solitamente, di ogni prodotto, restano un paio, se non addirittura una sola, di rimanenze.

Pensare troppo vuol dire sostanzialmente perdere il posto e il prodotto. Il gioco diventa competitivo fra gli utenti per conquistare la miglior offerta prima che cada in mani altrui al termine del timer che porta alla scadenza della proposta.

Essendo un’app che vuole evitare gli sprechi e migliorare la situazione ambientale, TGTG ha anche l’obiettivo di limitare l’utilizzo di imballaggi incoraggiando gli utenti a portare da casa, al momento del ritiro, contenitori e sacchetti. Le Magic Box di per sé sono già, in questo senso, virtuose in quanto ognuna di esse consente di evitare l’emissione di 2 kg di CO2.

Il senso di tutto ciò è chiaro: meglio consumare il cibo che passare poi allo smaltimento dello stesso che, è stato calcolato, è responsabile dell’8% delle emissioni globali di gas serra.

La società di analisi Baum + Whiteman prevede anche che nel 2021 nuove app segnaleranno i locali rimasti con degli avanzi o con scorte di cibo sul punto di scadere e che metteranno a disposizione pasti scontati o gratuiti.

Feed from food

Feed from Food invece è un sistema innovativo in grado di recuperare eccedenze e sprechi alimentari generati nel corso della filiera agroalimentare destinandole all’alimentazione animale sotto forma di ingrediente o, da prodotto finito, di snack o crocchette.

Il materiale proveniente dalla filiera di recupero viene trasformato in un prodotto alimentare ad elevata qualità nutrizionale e anche sicuro dal punto di vista igienico-sanitario.

Ciò che caratterizza la startup è la creazione di una nuova filiera, fino a questo momento inesistente, e l’ottenimento di un articolo caratterizzato da elevata sostenibilità. Il tutto grazie a un processo di produzione che si basa sulla valorizzazione di una materia prima destinata a trasformarsi in rifiuto e quindi con davanti costi di smaltimento e formazione di spreco.

Feed from Food crea così del valore da una materia destinata a diventare un costo per popolazione e ambiente. Costo evidentemente evitabile.

Il Rize Sustainable Food

Il RSF, primo ETF europeo sull’alimentazione sostenibile, fornisce esposizione alle aziende che innovano con lo scopo di costruire un sistema alimentare più sostenibile, sicuro ed equo.

È stato sviluppato insieme a Tematica Research, società di ricerca tematica leader negli Stati Uniti, sulla base di una dettagliata analisi dell’ecosistema globale dell’alimentazione sostenibile.

Il fondo ha l’obiettivo di immettersi nella sfida rappresentata dal fornire cibo sano, salutare ed economico a quella che è una popolazione mondiale in costante aumento. Il tutto riducendo contemporaneamente quello che è l’impatto sul nostro ambiente.

RSF replica l’indice Foxberry Tematica Research Sustainable Future of Food ed è composto da 44 titoli, appartenenti sia ai mercati già sviluppati che a quelli emergenti. Il prezzo di questo ETF è dello 0,45% all’anno.

Stuart Forbes, co-fondatore di RSF ha dichiarato: “La sicurezza e la sostenibilità del nostro sistema alimentare rappresentano una delle sfide più urgenti per il nostro pianeta. La buona notizia è che l’industria del cibo ha cominciato a rispondere. Per fare alcuni esempi, osserviamo l’espandersi delle possibilità delle proteine d’origine vegetale, l’introduzione di nuove tecnologie nell’agricoltura, nell’acquacoltura e nelle catene di fornitura, e cambiamenti positivi nei packaging utilizzati dalle aziende. Dal lato dei consumatori, vediamo una nuova consapevolezza da parte delle persone riguardo l’alimentazione e il suo impatto sugli ecosistemi del pianeta. Il sistema alimentare sta attraversando una rivoluzione, e abbiamo voluto creare un ETF che potesse catturare i venti favorevoli che muovono il settore sia dal lato della domanda che dell’offerta”.

Vertical farm

Rivoluzione alimentare sostenibile attraverso l’ideazione di veri e propri orti verticali.

Questa la vertical farming: piante che crescono su superfici poste su più livelli in ambiente aperto o chiuso, che consentono la possibilità di ridurre lo spazio necessario per lo sviluppo delle stesse.

La coltivazione, attraverso questa tecnica, può avvenire ovunque: da grattacieli fino a magazzini. L’utilizzo dei terreni del pianeta viene così ridotto dando vita a frutta e verdura in ambienti tenuti sotto controllo con spreco d’acqua minore e senza l’uso di pesticidi.

La vertical farming è una tecnologia nata recentemente. Era il 2012 quando a Singapore, per far fronte all’aumento della richiesta di cibo direttamente proporzionale all’aumento della popolazione globale, è stata ideata questa tecnica che, come detto, permette di non lavorare ancora sulle poche aree coltivabili (circa il 20%) a disposizione sulla Terra.

Dal punto di vista ambientale, le vertical farm sono evidentemente sostenibili:

  • consentono di risparmiare fino al 90% di acqua;
  • riducono gli spazi di all’incirca 15 volte rispetto alla coltivazione tradizionale;
  • aumentano la produttività fino a 350 volte;
  • permettono di coltivare in qualsiasi stagione e in tutte le parti del mondo considerato che non sfruttano la luce solare ma quella di lampade a led;
  • offrono vegetali a km zero, biologici e realizzati con sistemi che riducono praticamente minimo gli sprechi;
  • l’aria immessa negli edifici di produzione viene purificata con un sistema di filtraggio che non permette l’ingresso di sostanze inquinanti rendendo i frutti coltivati più sani e sicuri.

Da sole, logicamente, le vertical farm non sono la soluzione a tutti i problemi ambientali e di fame nel mondo. È altrettanto indubbio però che rappresentino una tecnologia particolarmente utile per dare vita a un sistema alimentare sostenibile.

Le realtà che si concentrano sulla coltivazione verticale sono sempre di più, anche in Italia: a Cavenago di Brianza, vicino a Milano, è nata la prima vertical farm italiana. Si chiama Planet Farms ed è la più grande d’Europa: lo stabilimento di vertical farming risparmia quasi il 90% di superficie e oltre il 95% dell’acqua utilizzata.

Come cambierà l’industria del cibo e il nostro modo di mangiare? 3

In tutto il resto della penisola esistono differenti realtà produttive che col tempo si stanno avvicinando sempre di più al sistema di coltivazione verticale che richiede spazi e risorse, seppur minimi.

Secondo un report della società di ricerche Allied Market Research, il valore del mercato globale delle vertical farm è stato valutato in circa 2,23 miliardi di dollari nel 2018 e si prevede che raggiungerà quasi quota 13 miliardi di dollari entro il 2026, crescendo a un CAGR (Compound Annual Growth Rate) del 24,6% dal 2019 al 2026.

Per le grandi città la possibilità di utilizzare lo spazio verticale e la riduzione della necessità di ulteriori terreni rappresenta una grande attrattiva dell’agricoltura verticale. Ed è previsto che la popolarità in crescita di cibo biologico permetterà di aumentare la richiesta di questo modo di coltivare.

Il sistema delle vertical farm è molto tecnologico e innovativo. Questo elemento è sia il suo punto di forza che quello debole: da un lato gli enormi vantaggi di sostenibilità ambientale e aumento della produttività, ma dall’altro il bisogno di addetti ai lavori altamente qualificati per star dietro a tutte le fasi della produzione (legate in tutto e per tutto alla tecnologia), il che porta a un aumento dei costi.

Le coordinate da seguire

Nella nostra analisi abbiamo visto come:

  • Personaggi e piattaforme popolari possono influenzare, e non poco, le persone e, in particolar modo, le nuove generazioni, ma anche il tragitto che l’industria del cibo potrà intraprendere.
  • L’alimentazione ha influito sullo sviluppo della specie umana nel corso di tutta la storia: dall’età antica fino a quella moderna e contemporanea. Molto è cambiato, seguendo, però, sempre alcune linee di continuità.
  • Entro il 2050 saremo 10 miliardi di abitanti sparsi per il mondo. Tutti dovremo continuare a nutrirci, ma vanno, obbligatoriamente, trovate soluzioni differenti per evitare di spremere fino al collasso un pianeta già oggi in crisi.
  • Nel 2020 ogni abitante della Terra ha portato in tavola in media 75 kg di proteine animali. Uno studio racconta che il picco di consumo si avrà nel 2025 per poi lasciare spazio alle alternative plant-based (già in crescita), alla carne sintetica, al cosiddetto Sci-fi food e magari alle proprietà nutrienti degli insetti. Con un occhio alla componente etica e di salvaguardia dell’ambiente.
  • Il benessere del proprio organismo. Non un dettaglio quello dell’attenzione che ogni persona dà alla salute del proprio corpo integrando attività fisica e regimi alimentari. Diete che sono sempre più diffuse nelle loro forme più disparate capaci di andare incontro a esigenze, immediate o durature, di ogni singolo individuo interpretando anche gusti di ogni genere.
  • Gli interessi delle nuove generazioni. Si sa, in futuro il mondo sarà loro e per questo motivo occorre comprendere e studiare abitudini e nuovi piaceri. Il focus resta sempre il cibo, magari qualche gusto diverso capace di regalare nuove sensazioni e senso di libertà. Poi un occhio ai social e alla condivisione del momento. Dalla viralità fino alla promozione stessa, un “favore” reciproco anche attraverso l’uso di gadget e nuove idee per rendere il pasto indimenticabile.
  • La parola chiave: sostenibilità. Le indagini statistiche hanno dimostrato che i cittadini sono sempre più sensibili alle condizioni in cui l’ambiente versa e all’impatto che le loro abitudini hanno su di esso. La popolazione è sempre più attenta a quello che mangia andando a investigare su filiera produttiva (e sul conseguente fardello che porta con sé) e sullo smaltimento di eventuali eccedenze.

La “salsa segreta”

Sì alla carne, ma stop all’esagerazione

La carne resta uno degli alimenti più consumati in giro per il mondo, ma gli individui pongono una crescente attenzione a tutto ciò che ne consegue dal punto di vista etico e di costi, economici e ambientali.

Ecco le 3 regole da tenere sempre a mente:

  • Limitare il consumo. Chi è abituato a una dieta fatta in larga parte di proteine animali non ha così facilità a cambiare stile di vita. Contenere il consumo può diventare cruciale per il bene del nostro organismo.
  • Gli sviluppi della tecnologia. Dalla carne sintetica alla Biostampa: il mondo cambia e si evolve e le persone devono stare al passo coi tempi.
  • La sensibilità del cliente. Non va sottovaluto l’incremento dell’interesse comune, dopo anni di deleteria lassezza, verso le questioni ambientali. Sì, l’interesse verso gusto e sapore, ma non c’è solo quello.

Le alternative alla carne guadagnano terreno

Per sopperire al fabbisogno proteico che il nostro organismo richiede e fare a meno di sfruttare gli animali, un crescente numero della popolazione mondiale sta utilizzando e sperimentando alternative di vario genere. La popolazione più giovane, in particolare, ha aumentato il proprio interesse verso stili di vita più ecosostenibili.

Ecco le 3 regole da tenere sempre a mente:

  • L’impennata dell’economia plant-based. L’incremento è evidente e coinvolge un numero sempre più ampio di persone. Non solo vegane e vegetariane, sintomo di un interesse comune che sta lievitando.
  • Aumentano le intolleranze. Crescono per via di cambiamenti climatici, così cambia il modo di mangiare e l’attenzione da dover riporre a ogni ingrediente.
  • Giovani e influenza. Dai social fino all’influenza di personaggi pubblici e piattaforme nel solleticare curiosità e coscienza comune. E poi il potere, da sfruttare, della condivisione, anche e soprattutto virtuale.

Grande attenzione a spreco e sostenibilità

L’impegno attorno ai problemi di fame nel mondo e criticità ambientale è in costante aumento. Tanto da diventare parte integrante dei ragionamenti di ogni cittadino nella scelta quotidiano su quello che viene inserito nel proprio organismo e dove viene acquistato e consumato.

Ecco le 3 regole da tenere sempre a mente:

  • Occhio allo spreco. Tante eccedenze terminano il loro viaggio nella pattumiera. Spesso a cuor leggero. Il mondo ora offre alternative ecosostenibili, indispensabile non perdersele.
  • Gli imballaggi vengono giudicati. Il cliente ci fa caso, eccome. Per questo motivo occorre non lasciare nulla al caso: non solo sul contenuto, ma sul pacchetto completo.
  • Come coltivare diventa cruciale. Gli spazi si riducono e il pianeta su cui possiamo vivere, al momento, resta solo uno. Quindi serve fare di necessità virtù: coltivare bene, raccogliere meglio.

Siamo in tanti sulla Terra e tutti abbiamo bisogno di cibarci e il diritto di farlo secondo i propri gusti e secondo le proprie volontà. Però diventa fondamentale dare uno sguardo maggiore a quello che ci circonda, senza per forza adottare cambiamenti drastici. Ma con un occhio di riguardo sì, quello dobbiamo averlo.

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