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Il CEO della felicità. Lavorare diventa bello.

21 Aprile 2023
Marketers

C’è una buona notizia: la felicità dei dipendenti sul posto di lavoro è diventata di tendenza. E la posizione lavorativa più importante, in determinate aziende, non è più quella di CEO o CTO, ma piuttosto il CHO: Chief Happiness Officer.

Sebbene la sua presenza in molte aziende non sia ancora molto diffusa, la popolarità è certamente in aumento. Finalmente i marchi di tutto il mondo cominciano a capire: un’azienda felice è un’azienda sana. La strada da seguire, ecco, vien da sé.

Il “posto di lavoro” è cambiato drasticamente, sono cambiati allo stesso modo gli individui all’interno dello stesso.

Secondo Forbes Magazine, i dipendenti oggi cercano tre qualità essenziali:

  • appagamento
  • impegno
  • responsabilizzazione

Il 70% dei partecipanti al sondaggio ha sostenuto come un ambiente di lavoro positivo riesca a promuovere la “felicità lavorativa”.

Qui entra in gioco il ruolo di un Chief Happiness Officer. Che in alcune aziende conta quanto un CEO o un CTO.

Ma che tipo di figura è?

Non è semplice rispondere a questo tipo di domanda: lo spettro dei compiti di un CHO è molto ampio. Di sicuro parliamo di un professionista delle risorse umane, il cui scopo è mantenere dipendenti felici e allo stesso tempo impegnati.

A sua volta, il CHO mira a migliorare la produttività del personale, colpendo su valori non scontati in ambito aziendale, come la lealtà e un ambiente generalmente positivo.

Ogni membro dell’azienda viene trattato da “essere umano” e non da ingranaggio di un meccanismo molto più grande di lui. I CHO danno una voce all’interno dell’azienda e soprattutto si preoccupano di ascoltare.

Come lo fanno? Attraverso canali adeguati. Linee guida. Un percorso di azione che assicuri una risposta alle loro esigenze e idee.

In sintesi, aumentare il morale attraverso il coinvolgimento totale sul posto di lavoro. Così che ne possa beneficiare certamente il datore di lavoro. Ma anche il collaboratore si sentirà parte di una grande famiglia e condividerà non solo gli obiettivi di produzione, persino percorso e valori.

Da ormai un anno anche Erica Tramontini, la CHO di Marketers, lavora ogni giorno per costruire un ambiente sereno e dove ciascuno si senta a suo agio. Con una bella sfida extra: lo fa da remoto per un team completamente da remoto.

Insieme a lei vedremo i problemi più grandi da affrontare e le sfide da vincere. Concluderemo con “10 comandamenti per CHO”: tranquilli, valgono anche se non avete un CHO, ma volete semplicemente tenere alto il morale in azienda.

Cominciamo subito.

Un po’ di storia

Il primo ruolo di un Chief Happiness Officer (CHO) è stato introdotto nella Silicon Valley, cuore pulsante delle innovazioni USA. All’inizio era un titolo eccitante, raccontava un nuovo modo di rapportarsi con i dipendenti.

Era affascinante e infatti sempre più start-up hanno provato ad andare in questa direzione. Del resto, era una figura di cui si era sentita sempre necessità: il CHO non solo può intervenire nel settore delle risorse umane, ma anche per la comunicazione interna a un’organizzazione.

Alexander Kjerulf, fondatore e CHO di WooHoo Inc., è stato chiaro sullo sviluppo della posizione: qualsiasi CHO deve avere sempre il sostegno del top-level management se vuole essere efficiente e avere successo nell’influenzare la cultura e l’impegno dei dipendenti. 

L’aspetto culturale dell’azienda è infatti determinante. Un esempio è Zappos, rivenditore online di scarpe e urban wear che garantisce l’incentivo chiamato Pay to Quit: arriva a pagare duemila dollari per gli assunti che decidono di licenziarsi poiché non in linea con il proprio credo.

Altri datori di lavoro, tra cui i colossi Amazon e Netflix, stanno seguendo l’esempio. L’obiettivo resta garantire ai dipendenti una base di “felicità”, con i loro datori di lavoro e nello stesso lavoro.

Perché lo fanno?

Be, non c’è alcun dubbio che in molte aziende quest attenzione al lavoratore attraverso la figura del CHO sia mirata a ottenere produttività maggiore.

Ma in Marketers abbiamo capito che non si tratta solo di questo, anzi la figura del CHO riveste tutt’altra importanza e si allontana da quello che potrebbe sembrare solo un ruolo associato al secondo fine della produttività.

Il fatto è che ormai lavoro e vita coesistono contemporaneamente, sono due facce della stessa medaglia. Anzi, spesso e soprattutto da remote, queste facce si confondono fino a sembrare una sola al dipendente.

Il ruolo principale dell’azienda e quindi del CHO consiste nell’assicurarsi che i dipendenti sappiamo distinguere tra lavoro e vita. Che non trascurino la seconda in favore del primo.

Però è vero, il CHO – in una delle tante funzioni – diventa proprio un acceleratore di rapporti e di conseguenza un catalizzatore della produttività.

Ora, arriviamo a una domanda cruciale: quali possono essere i motivi di insoddisfazione di un lavoratore?

A prescindere dalla figura del CHO, bisogna fare attenzione al tema dell’insoddisfazione lavorativa. Nonostante un lungo percorso di crescita, sia per le aziende che per i dipendenti, le condizioni che favoriscono questa condizione sono ancora oggi concrete.

Sono tangibili e quindi rimediare è missione di tutti.

Ma abbiamo gli strumenti? Non sempre.

Sono in aumento, soprattutto con i rallentamenti dovuti alla pandemia, le persone che si sentono deluse, preoccupate, spesso frustrate dai canoni lavorativi ai quali erano o sono abituati ancora oggi.

Dalla mancanza di comunicazione con l’alto. Dalla percezione di essere solo un ingranaggio e neanche di quelli fondamentali.

Poi, i salari. Le vacanze. I giorni che si accavallano e gli orari sempre più dilatati, come se il lavoro fosse vita e non solo una parte. Certamente determinante, ma senza richieste di esclusiva.

Pertanto, ci sono tanti motivi per i quali si manifestano sintomi di un’insoddisfazione lavorativa. Patrick Leoncini, autore di The Three Signs of a Miserable Joy, spiega come non sia importante avere un buon lavoro o un brutto lavoro: in molti casi, l’individuo crede di avere un lavoro miserabile che lo trasforma in una persona altrettanto miserabile.

Il problema non è il lavoro di per sé: è il modo in cui viene percepito da chi lo svolge.

Chiaramente, lo stipendio, la quantità di ore, la percezione dell’importanza di ciò che si fa, sono tutti fattori che accavallano tensione e preoccupazioni. Ma in molti casi, la colonna portante dell’insoddisfazione è semplicemente la consapevolezza di non contribuire a un bisogno universale, insito in ogni uomo: l’autorealizzazione.

Essere CEO della più grande multinazionale della storia, anche per questo, non è sinonimo di felicità. Ci si può sentire sepolti vivi e ansiosi – sempre – di ottenere il massimo da ogni scelta.

Leoncini analizza tre campanelli d’allarme: sono segnali di qualcosa che non va per il verso giusto, esempi di deterioramento fisico e morale.

Al 1° posto, c’è l’anonimato.

Sono le persone che si sentono ignorate. Ossia: non riconosciute sul posto di lavoro, per quanto fanno o semplicemente per il loro posto nei bassifondi della catena di comando.

Trasformare un dipendente in un numero è l’errore più comune che si possa commettere. L’impiegato può infatti sentirsi invisibile, non apprezzato o valorizzato.

E agli occhi di chi opera, il proprio lavoro sembrerà insignificante, dunque qualcosa impossibile da amare.

2° posto: l’irrilevanza.

Siete certi che il dipendente conosca il valore di ciò che fa? Ognuno di noi ha bisogno di sapere quanto possa contare il proprio lavoro. Avere anche solo l’illusione di fare la differenza.

Sostanzialmente, di impiegare il tempo concesso nel migliore dei modi possibili. Ecco perché il “mobbing” è una causa molto seguita e per la quale vale naturalmente la pena combattere.

Riempire le giornate di compiti inutili equivale ad annichilire il lavoratore e la persona.

3°: l’impossibilità di avere un confronto.

Fondamentale è misurare i propri meriti. Capire i progressi fatti all’interno del percorso. Determinare l’evoluzione del proprio ruolo. Realizzare che ci possa essere un vero orizzonte dietro le otto ore al giorno e una promozione perennemente in attesa.

Ecco perché il successo nel proprio lavoro non può dipendere da opinioni soggettive o da capricci di terze persone.

Leoncini racconta quanto sia importante attuare misure concrete, così da valutare il successo o il fallimento di azioni compiute. Altrimenti la motivazione può venire meno e si arriva alla sensazione più preoccupante di tutte: non avere il controllo di quanto si sta facendo.

Lavorare da remoto: non solo vantaggi

Ora: sembra una banalità e invece non lo è, ma la tecnologia sta cambiando la natura del nostro modo di lavorare, ancora di più con i recenti e non pianificati cambiamenti che tutti abbiamo dovuto affrontare come risultato diretto della pandemia.

Ma lavorare da remoto ha ancora delle sfide da vincere. Anzi: da giocare.

Ne abbiamo parlato anche nel nostro Marketers State of Remote Working 2021, uno studio che abbiamo effettuato per capire come gli italiani stiano vivendo il remote working e quali potrebbero essere i suoi sviluppi futuri.

In primis, le ore di lavoro. Siamo davvero “liberi” di poter gestire a nostro piacimento il flusso lavorativo? O è solo un’illusione?

Risorse Marketers
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La comunicazione in ufficio viene meno: videoconferenze e call avranno sempre spazio, ma l’alienazione e la distanza data dallo schermo aumenta le difficoltà. Di tutti. E questo penalizza l’attenzione su decisioni potenzialmente chiave.

L’equilibrio tra vita e lavoro viene poi indissolubilmente meno: essere a casa è un vantaggio per le faccende quotidiane, ma non cambiare ambiente, infilarsi nel brulicare della città, atrofizza i pensieri e dà meno stimoli. 

Ecco, lo smartworking penalizza esattamente quest’aspetto: avere una sola finestra sul mondo non sviluppa nessun tipo di creatività. Ti porta inevitabilmente a considerarti una misera parte del tutto.

Un sondaggio di LinkedIn ha misurato lo stress da smart working: il 46% delle persone intervistate afferma di sentirsi più ansiosa per il proprio lavoro rispetto a prima. Allo stesso tempo, i ritmi sono aumentati.

Un’ora in più al giorno per il 48% degli intervistati. Se si sommano, 20 ore in più al mese.

La preoccupazione diffusa riguarda il “burnout”. In inglese sta per “esaurimento” ed è la condizione stressante intensa e prolungata nel tempo che colpisce soggetti che esercitano professioni di aiuto. Come racconta Mashable, negli ultimi tempi è stato allargato ai contesti professionali che conducono il lavoratore a sperimentare esperienze altamente stressanti.

Come accorgersene?

Sintomi fisici e psicosomatici. Emicranie, colon irritabile, insonnia, sintomi psicologici come stati d’ansia, attacchi di panico, episodi depressivi.

Sul posto di lavoro si traducono in assenteismo, conflitti lavorativi, scarsa concentrazione ed eccessivo affaticamento.

Non esiste più un preciso orario di lavoro. E non esiste più una divisione di spazi: si svolge tutto nello stesso posto, la casa.

“Sullo stesso tavolo pranziamo, mandiamo email, giochiamo con i figli”.

Le soluzioni ovviamente ci sono e noi stessi ne abbiamo sviluppata una che si basa sul principio per cui lavorare più di 52 minuti di seguito senza fermarsi causa alti cali di concentrazione. Per evitare di incorrere in questo effetto, abbiamo creato Focus by Marketers, l’unica playlist Spotify che ti ricorda di staccare ogni 52 minuti.

Ma tornando sul luogo di lavoro, secondo uno studio del Beck Institute lì ci sono diversi elementi tossici per noi: il conflitto irrisolto, la carenza di supporto reciproco, la presenza di relazioni sociali distruttive.

Il CEO della felicità. Lavorare diventa bello. 1

Tutte difficoltà di un team che sono difficili da gestire quando si è insieme in ufficio. Che aumentano per la distanza e nonostante gli strumenti tecnologici. Allo stesso modo aumenta il carico di lavoro e il controllo, mentre diminuisce la ricompensa sociale e il sentimento di comunità.

Per combattere il burnout, il Beck Institute ha ricordato alcune delle principali proposte.

La prima: condurre uno stile di vita sano, aiuta a combattere ogni esperienza stressante. Poi: ricorrere a pratiche di rilassamento come la meditazione. Accrescere, inoltre il grado di consapevolezza dei punti di forza e debolezza.

Maria Maggi, psicologa e psicoterapeuta, ha raccontato a Repubblica: “In genere si ritiene che il burnout sia in primo luogo un problema dell’individuo, dovuto alle caratteristiche del carattere, del comportamento o alla loro capacità lavorativa. Ma vari studi hanno dimostrato invece che l'esaurimento è un problema del contesto sociale nel quale opera. Quando l’ambiente di lavoro non riconosce l’aspetto umano del lavoro, il rischio di burnout aumenta”.

Come sempre: prevenire molto meglio di curare. 

CHO: negli Usa e in Italia

E prevenire è esattamente il ruolo del CHO, che negli Stati Uniti svolge quasi un ruolo “costituzionale”. La ricerca della felicità è infatti una garanzia dello Stato e le aziende non possono non tenere conto dell’ambizione più alta dell’individuo.

Non solo: un ambiente di lavoro sano e quindi contento serve ad attrarre i migliori talenti e poi a trattenerli. Per questo occorre rinnovare l’approccio alle risorse umane, per questo il lavoro è finalizzato a una cultura che ruota davvero intorno alla felicità dei dipendenti e alla loro esperienza quotidiana.

Negli USA è ovviamente una realtà ben consolidata. Abbiamo raccontato dell’esempio di Zappos. Ma anche Google, Airbnb, Charity Water, Salesforce e Chefs Club hanno creato posizioni specificamente dedicate a mantenere e migliorare l’esperienza dei dipendenti e la cultura aziendale.

In Italia, l’esempio è quello di Veruscka Gennari e Daniela Di Ciaccio. Come raccontato da Business Insider, hanno fondato la “2BHappy Agency”, la prima agenzia in Italia nata con lo scopo di favorire la diffusione della Scienza della Felicità e la crescita di Organizzazioni Positive.

Anche Marketers si è rivelata tra i pionieri nella ricerca della felicità del proprio dipendente: Erica Tramontini ricopre il ruolo di CHO dal gennaio 2020. E ci ha raccontato la sua esperienza, il suo quotidiano, gli obiettivi futuri.

Fare il CHO in Marketers: gli insight di Erica

“L'obiettivo? Lavorare perché le persone siano felici”.

Primo ed ultimo obiettivo della sua giornata, Erica li sintetizza così, come se si trattasse di qualcosa fisicamente raggiungibile.

“Il principio da cui si parte è questo: il team deve essere sicuramente produttivo, ma è molto importante che il benessere del gruppo venga curato. Affinché sia più sereno, più umano. Nessuno vuole vederli come ingranaggi di una macchina”.

Il sistema sta cambiando e si sta scoprendo oggi quanto sia importante il ruolo delle persone in quanto persone.

Ma l'azienda dev'essere responsabile anche della stabilità della persona?

Su questo, Erica non ha dubbi: “Un professionista felice è una persona felice. Ed è un concetto a cui Marketers tiene molto”.

Molti temono infatti l'effetto “contagio”, che in un ecosistema online e offline è molto importante e da tenere in considerazione.

Se lo stress di un individuo è molto forte, è facile che tutti possano viverlo.

“E in questo l'azienda ha enorme responsabilità: tutto parte dalla cultura radicata all'interno del posto di lavoro.

Quanto è coerente la leadership con i valori che condivide? Con i suoi principi fondanti? Sono questioni necessariamente da risolvere”.

Nel suo racconto del quotidiano, Erica prova a schematizzare il suo lavoro in tre macro-punti.

Il 1°: un ambiente sicuro.

I collaboratori devono sentire di avere tutto ciò di cui necessitano per lavorare. Può essere un contratto, la rapidità di accedere ai tool di lavoro, un chiarimento sui pagamenti, sapere a chi rivolgersi per questioni burocratiche.

Proprio il burocratico non deve diventare un ostacolo: qualcuno deve sempre fornire risposte. E da noi è l'Happiness Manager, in questo caso un filtro verso l'amministrazione.

Il 2°: principio della soddisfazione.

E la soddisfazione è legata a tanti fattori, come al piacere della partecipazione, al riconoscimento del proprio lavoro, alla disponibilità dell'azienda nella crescita professionale.

Ma anche a fattori solo apparentemente esterni al lavoro. Tipo? “La distribuzione dei libri. All'interno della nostra organizzazione c'è la possibilità di richiedere volumi gratuitamente, di ogni tipo. Si fa una richiesta e si riceve: è tutto finalizzato alla crescita dell'individuo”.

Il 3°, aspetto molto delicato: l'identità di gruppo. E cioè una connessione sociale, fondamentale soprattutto se il luogo di lavoro è virtuale.

Condividere un gruppo non è solo parteciparvi: è viverlo a pieno, trascorrere del tempo insieme (non necessariamente lavorativo).

“Le differenze di ciascuno non devono mai essere caratteristiche da sopire, ognuno con le sue esperienze è un valore aggiunto. E la condivisione ci fa crescere”.

Racconta Erica: “Su tutti questi elementi influisce in maniera determinante la cultura aziendale. Ma chi la fa? La leadership, dunque nasce a monte“.

La community e i collaboratori conoscono mission, valori, vision. Gli obiettivi e il percorso.

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L’identikit del CHO ideale

Deve saper gestire l'aspetto emotivo e pratico di un lavoratore.

Ma come si fa? Soprattutto, c'è tanta differenza tra presenza e remoto?

A prescindere un CHO deve essere necessariamente empatico, in grado di ascoltare e farlo per davvero.

Non è qualcosa di scontato o di ovvio: tendiamo spesso a ‘sentire' in un'ottica di interesse nostro. Magari emerge una preoccupazione e ci sfugge.

Ecco, il CHO deve tenerla sempre in considerazione, poiché permette di avere un quadro complessivo della persona.

“Magari sapere che il giorno prima è preoccupato, mi aiuta a mettermi a disposizione dell'individuo il giorno dopo”.

Chiaramente, ha le sue complessità: bisogna provare ad aprirsi, prendere rischi. “Per esempio: so che dobbiamo sentirci in maniera più leggera, non solo per lavoro. Allora propongo delle soluzioni per farlo in totale libertà. Gioco sugli equilibri per andare avanti”.

Essere empatici, dunque, al primo posto della catena di comando per un CHO. E altre caratteristiche? Erica ci offre dei consigli utili.

“Partite dal presupposto che l'ascolto è la prima prerogativa: solo le persone potranno farvi capire. E non abbiate paura di scontrarvi: è tutto normale”.

Infatti, anche l'azienda con il massimo welfare non prescinde dagli attriti. E per un milione di motivi.

“Gli attriti sono nodi da sciogliere ed è sano e normale che si verifichino. Quello che conta è riconoscerli e affrontarli serenamente, con consapevolezza. Spesso un parere esterno, come può essere quello del CHO, può aiutare a osservare la situazione da un altro punto di vista e valutarla insieme per trovare la giusta strada da percorrere.”.

Qual è l'approccio giusto? “Non vado mai a chiedere cosa sia successo, l'importante è che il lavoratore sappia che io ci sono. Spesso basta quello”.

Il percorso di studi e differenze con le Risorse Umane

Esistono dei corsi preferenziali, ma non ancora un corso specifico per diventare CHO.

“Il motivo? L'importanza del benessere sul posto di lavoro è stata elaborata in maniera empirica. Le aziende si sono rese conto che dare un supporto del genere diventava determinante. Magari in futuro sarà una figura di riferimento e potrà avere dei corsi propri”.

Una prima traccia è data certamente dal lavoro nelle Risorse Umane (HR), sebbene si tratti di due lavori decisamente diversi, con intenzioni dissimili nel profondo.

“Il mio ruolo non sta nel riportare l'errore”, come ci ha raccontato Erica. “Sta nell'aiutare a capire, a correggere, a fornire gli strumenti utili a vivere l'ambiente senza pesantezza”.

Del resto, l'HR oggi è visto come una sorta di filtro; un braccio destro della dirigenza e un ulteriore occhio dall'alto sui propri comportamenti.

Il CHO è il braccio destro di tutti, “non gioca nessuna partita se non quella dell'azienda”. E riqualifica l'uomo ancor prima del lavoratore.

Creare un ambiente sereno: i 10 comandamenti

Dagli appunti di Erica alla concretezza di alcuni aspetti decisivi per creare un ambiente sereno.

Se non siete ancora al passo con la rivalutazione del personale a vostra disposizione, non disperate: ci sono degli elementi molto chiari e piccolezze sulle quali però potrete fare grande affidamento.

Abbiamo stilato 10 comandamenti con i quali potrete garantire un alto livello di soddisfazione per il dipendente:

  • Numero uno: dare valore.

L'obiettivo è sempre far sentire i propri dipendenti valorizzati, sia in qualità di professionisti che di persone.

  • Numero due: diritti fondamentali.

Sembra scontato, non lo sono però i salari regolari, le condizioni umane di lavoro. Per far sì che i dipendenti non abbiano insofferenze o preoccupazioni, bisogna tenere assolutamente conto del trattamento concreto che viene loro riservato.

  • Numero tre: ascoltare.

Ogni minima parte del gruppo di lavoro ha bisogno di un confronto, di una parola, di un ambiente amichevole. Ascoltate ciò che hanno da dire: rimostranze e consigli. Fanno crescere tutti.

  • Numero quattro: apprezzare il lavoro quotidiano.

Spesso si lavora per progetti e tutto il percorso silenzioso del ‘mentre' viene sacrificato in funzione del prodotto finito. Ecco, apprezzate anche il viaggio e non solo la meta. Ogni giorno conta e il lavoratore apprezzerà.

  • Numero cinque: la libertà.

Proprio per scoprire il pieno potenziale di ogni individuo, date loro la libertà di organizzare il proprio lavoro e il calendario. Testerete la sua presa di responsabilità e aiuterà certamente in futuro.

  • Numero sei: la crescita.

Il lavoro è una risorsa incredibile di soddisfazione personale. Ma i lavoratori devono essere messi nelle condizioni di poter crescere, di poter evolvere, di poter migliorare le proprie condizioni di vita attraverso l'impegno di ogni giorno.

  • Numero sette: conciliare la vita professionale e lavorativa.

Vero, dovrebbe esserci una separazione netta. Ma soprattutto in questi tempi, come la si ottiene? Spesso è impossibile. Per questo l'azienda, nei propri limiti, dovrebbe farsi carico di aspetti solo all'apparenza extra. Consigli e iniziative possono agevolare l'importanza di un equilibrio vita-lavoro.

  • Numero otto: divertirsi!

Non è tutto produttività e salari: creare momenti divertenti, di raccoglimento, aiuta a creare un ambiente di lavoro assolutamente positivo.

  • Numero nove: team building.

Se non avete un CHO, assegnate a un membro del vostro ufficio, vero o virtuale che sia, il compito di occuparsi del team building. Lavoratori più vicini sono lavoratori in grado di fare gruppo e di raddoppiare la propria forza.

  • Numero dieci: delegare.

Più potere date ai vostri dipendenti, più la compagnia ha forza alla base. Delegate e motivate i vostri dipendenti: li aiuterà.

Comunicazione dal basso verso l'alto

Infine, due domande:

  • Dal basso: avete modo costantemente di poter rapportarvi con un vostro superiore, per questioni lavorative o non?
  • Dall'alto: riuscite a interagire con i sottoposti, conoscete ciò che pensano del progetto, della vostra persona? Percepite fiducia o un ambiente ostile?

Ecco, ogni situazione fa storia a sé, come in tutte le cose. Qui possiamo però fornirvi dei consigli utili per migliorare la comunicazione tra leadership e collaboratori, per entrambe le direzioni.

Innanzitutto, siate positivi: ogni conversazione la si immagina aspettandosi un buon risultato. Le emozioni si trasmettono nei discorsi e coinvolgeranno maggiormente la persona a cui state parlando.

Subito dopo: evita il conflitto. Non cercare di ottenere ciò che vuoi discutendo per chi ha ragione o chi ha torto.

Bisogna comunicare assolutamente il fatto che si sta affrontando tutto insieme. Ognuno ha la sua prospettiva e non necessariamente l'una prevaricherà l'altra.

Utilizza poi espedienti linguistici per addolcire i discorsi. Un esempio: “Penso che” invece dei “Però”.

A prescindere, siate il modello di comportamento che vorreste dal vostro leader o dal vostro collaboratore. Per farsi ascoltare bisogna innanzitutto ascoltare.

Avere un rapporto umano non è così complicato, ma allo stesso tempo non sarà mai scontato.

Essere risoluti e allo stesso tempo comprensivi è una strada che certamente porterà risultati.

Il lavoro non è vita, ma una parte essenziale: correre o rincorrere non ha senso, il viaggio va affrontato con estrema comodità, ambizioni e con degli ottimi compagni di viaggio.

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